Luca Barducci
Il cimiero dell’origliere
Senza dubbio il cimiero al quale facciamo riferimento è quello che una certa bibliografia un po’ datata ha chiamato dell’origliere o guancialetto. Esistono, allo stato attuale delle nostre conoscenze, tre esemplari di stemmi malatestiani in cui compare questa tipologia di cimiero, costituito da un piccolo cuscino dotato di quattro nappe agli angoli: quello presente a Montefiore Conca (fig. 1), e riferibile a Malatesta Ungaro (1327-1372); quello di Rimini (fig. 2), piuttosto danneggiato, all’interno di Palazzo Baldini, sul Corso d’Augusto, databile alla metà del XIV secolo, e quello presente a Pesaro (fig. 3), più tardo rispetto ai precedenti, realizzato tra i decori dei pinnacoli del portale della chiesa di Sant’Agostino, fatto realizzare tra il 1398 ed il 1413 da Malatesta dei Sonetti.
E’ un cimiero rarissimo per l’araldica italiana, mentre è assai più cospicuo il suo utilizzo nell’ambito dell’araldica di area germanica, dove prende il nome di Helmkissen (letteralmente “cuscino dell’elmo”). Esso può costituire da solo il cimiero (fig. 4), o fungere da base d’appoggio per una seconda figura (fig. 5). E’ sempre dotato, come negli esemplari di cui andremo a parlare, di quattro nappe, poste agli angoli.
Gli stemmi di Montefiore e Rimini, anche se variamente danneggiati dal tempo (in particolar modo quello riminese), presentano caratteristiche molto simili: scudo dalla forma ovalare con le classiche tre bande scaccate di tre ordini e bordura indentata, timbrato da un grand’elmo dal quale si sviluppano lambrecchini brevissimi e dall’aria particolarmente rigida. Al di sopra dell’elmo vi è un piccolo cuscino, che nell’esemplare riminese, mutilo, risulta quasi completamente scomparso all’infuori di un angolo e di una nappa.
Nello stemma di Montefiore al di sopra dell’origliere è posto un fascio di piume, che nascono da una struttura sferica di non chiara origine. E’ suggestiva e apre alcuni interrogativi la netta somiglianza tra questo cimiero (cuscino, struttura non ben identificata, piume) e quello di una famiglia nobile tedesca, gli Ulner von Dieburg, originaria dell’Assia (fig. 5). In questo caso a sorreggere le piume (di pavone) è un vaso. È ipotizzabile che anche lo stemma riminese possedesse, in origine, un cimiero simile se non identico.
Lo stemma pesarese, più tardo, come già accennato è posto in una delle guglie del portale gotico della chiesa di Sant’Agostino, fatta edificare per volontà di Malatesta dei Sonetti (fig. 6). In questo caso lo stemma è incluso in uno scudo a targa, con la tacca per l’appoggio della lancia, e raffigura tre bande scaccate di tre ordini ed una bordura indentata. Lambrecchini più fluidi si dipartono dall’elmo, sovrastato da un cuscino al di sopra del quale pare esserci un’ala (blasonandolo in termini araldici parleremo di semivolo sinistro), e non di singole piume riunite in un fascio, ma l’analogia è comunque strettissima ed evidente.
Va anche ricordato che il primo sigillo malatestiano che si conosca, quello di Malatesta da Verucchio (+1312), conservato nel Museo Civico di Bologna, rappresenta una testa virile, sormontata da una croce, e adagiata su di un cuscino.
Il cimiero dell’unicorno
Di questo cimiero abbiamo un solo esempio, nel portico della chiesa di san Francesco, a Fano: esso sovrasta un elmo che a sua volta timbra uno scudo a targa, dove alle note tre bande scaccate di tre ordini si accompagna in capo un lambello a cinque pendenti ai quali si alternano quattro gigli (fig. 7).
È assente la bordura indentata. Lo stemma in questione è scolpito su una grande lastra tombale, in marmo rosso di Verona: alcuni (1) lo indicano proveniente da Pesaro, altri (2) invece affermano come essa sigillasse il sepolcro di famiglia all’interno della stessa chiesa, e dove rimase probabilmente fino a metà Ottocento, quando l’edificio subì profonde trasformazioni. Se non abbiamo elementi per poter affermare una sua provenienza dal pesarese, è probabile invece che tale stemma sia da attribuirsi a Malatesta dei Sonetti, come lasciano supporre le due M gotiche che lo affiancano: a suffragare tale ipotesi concorrono altre due iniziali, del tutto simili nello stile ma questa volta coronate, scolpite a Pesaro sul portale della ex chiesa di San Domenico (fig. 8), dove esse affiancano uno stemma malatestiano. La ex chiesa, la cui edificazione risale alla fine del XIII secolo, venne rimaneggiata sul finire del secolo seguente su committenza di Malatesta dei Sonetti, che nel 1395 fece apporre il bel portale in stile veneziano in memoria del padre Pandolfo II.
Il cimiero dell’elefante
L’elefante è senza dubbio l’animale che più di ogni altro è presente nell’araldica malatestiana, non solo nei cimieri ma anche come impresa a sé stante. Il primo esempio di utilizzo di tale cimiero va ricercato in una bella miniatura presente nel margine inferiore della carta 3r della Nobilissimorum clarissime orginis heroum de Malatestis regalis ystoria, scritta da tal frate Leonardo e composta tre il 1377 ed il 1385 (3). Al centro del margine è infatti miniato un elmo a becco di passero, coronato da un cercine d’oro e d’azzurro, dal quale nascono il collo e la testa di un elefante coronato (fig. 9). Credo sia possibile affermare che tale cimiero, essendo composta l’opera Galeotto vivente, fosse utilizzato sia dal signore di Rimini che dal figlio Carlo, al quale è dedicata, sebbene tutti gli stemmi sicuramente attribuibili a Galeotto mancano di questa parte dell’arma. L’elefante, con le fauci aperte a mostrare le due zanne, tiene la proboscide rivolta verso l’alto e porta sul capo una corona d’oro. Tutti i figli del signore di Rimini, ad eccezione di Galeotto Belfiore del quale non esistono esempi in tal senso, utilizzarono questa tipologia di cimiero.
Carlo (*1368 +1429) lo utilizzò in uno stemma (fig. 10) affrescato nel soffitto ligneo dell’antica Abbazia di Santa Maria Annunziata Nuova di Scolca, sul colle Covignano che guarda verso la città di Rimini. Lo stemma, barbaramente ridipinto durante gli ultimi “restauri” integrativi, presenta un cimiero costituito da una testa di elefante, rivolta (ovvero voltata verso destra) e crestata. Anch’esso si presenta con le fauci spalancate e le zanne rivolte verso l’alto, mentre la corona è assente (4).
Per quanto riguarda Pandolfo III (*1370 +1427), un bello stemma a lui attribuibile è quello presente sul margine inferiore della prima carta del ms. De civitate Dei di Sant’Agostino, eseguito per Pandolfo tra il 1415-17 ed il 1420, e conservato presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (fig. 11). Lo stemma, all’interno di una cornice polilobata e circondato da uno scudo a targa con tacca, è quello classico. Sull’elmo è posta una corona d’oro dalla quale si sviluppa il collo dell’elefante, dotato di zanne e cresta dorata. Ariosi lambrecchini si dispiegano dall’elmo, e due P maiuscole e coronate affiancano il cimiero (5). Un secondo stemma (fig. 12) è quello sul dritto di un grosso coniato a Brescia durante la signoria di Pandolfo (1404-1421). Non si differenzia dal precedente che per le iniziali, in questo caso P ed A, prive oltretutto di corona. È possibile – ma senza prove documentarie questa resta un’ipotesi – che la cresta sia stata acquisita dal patrimonio araldico della famiglia Visconti di Milano (6). Numerosi sono infatti gli esempi del biscione visconteo dotato di cresta ed utilizzato come cimiero.
Anche Andrea (*1373 + 1416), terzo figlio di Galeotto, scelse questa tipologia di cimiero, di cui conosciamo alcuni esempi. Il primo (figg. 13-14) fa parte di una grande targa composita, ora presso la Biblioteca malatestiana di Cesena ma in origine sulla facciata della torre principale del distrutto castello di San Giorgio. Il castello fu iniziato per volere di Andrea Malatesta e, morto questo, continuato dai fratelli Carlo e Pandolfo. La lapide che reca l’epigrafe ricorda un’impresa di Andrea Malatesta, che sottrasse dalla Porta Vercellina di Milano due catene ed una campana (7), in seguito dedicate a San Giorgio, protagonista del rilievo posto tra i due stemmi monumentali. Lo stemma, elegante e dalle forme armoniose, è timbrato da un elmo coronato, dal quale si dipartono svolazzi. Il cimiero presenta un elefante alato, caratteristica che si riscontra solo ed esclusivamente negli stemmi di Andrea, mentre è assente la cresta. Ed un elefante alato è quello che costituisce il cimiero di un secondo stemma lapideo (fig. 15), sempre ospitato presso la biblioteca cesenate. Di diversa fattura rispetto al precedente, mostra un lavoro meno curato ed elaborato, ed una certa rigidità in alcuni elementi (ali, lambrecchini) ma nell’insieme ricalca quello proveniente dal castello di San Giorgio.
Ma senza dubbio colui che ha infuso all’elefante un significato che va al di là del semplice elemento araldico è Sigismondo Pandolfo Malatesta (*1417 +1468), figlio di Pandolfo III e della bresciana Antonia da Barignano. Con Sigismondo Pandolfo l’elefante esce dalla fissità del ruolo in cui era stato relegato e viene trasformato in impresa vera e propria, come si può ammirare in quello che è la summa del pensiero araldico del Malatesta, ovvero la chiesa di San Francesco, a Rimini, chiamata volgarmente Tempio Malatestiano. Ovviamente rimane figura privilegiata per costituire il cimiero degli stemmi più importanti, sulla facciata della torre di Castel Sismondo (fig. 16), nelle medaglie del Pisanello (fig. 17) e del Pasti (fig. 18). Proprio all’interno dell’edificio sacro, scelto fin dal tempo di Malatesta da Verucchio (+1312) come sepoltura “familiare”, si trova una particolarità: sulla tomba di Isotta degli Atti (+1474), terza ed ultima moglie di Sigismondo Pandolfo, il cimiero è doppio (fig. 19), presenta cioè due teste di elefante crestate e rivolte verso l’esterno. Un doppio cartiglio reca il motto Tempus loquendi, tempus tacendi. Questo doppio cimiero si ritrova anche in alcune balaustre (fig. 20) e ai lati dell’ingresso alla Cappella delle Reliquie (fig. 21). Sconosciuto l’uso di un cimiero per Roberto Malatesta (*1440 +1482), figlio di Sigismondo Pandolfo e della fanese Vannetta Toschi, in quanto gli stemmi a noi giunti a lui attribuibili ne sono privi.
Il figlio di Roberto, Pandolfo IV (*1475 +1534), pur non lasciando in patria alcun reperto lapideo, ha impresso il suo stemma (fig. 22) sul piatto anteriore della legatura di un manoscritto a lui dedicato ora conservato nel Museo Correr di Venezia (8). Il cimiero è rivolto (v. prima), ma raffigura un elefante del tutto identico a quello dell’avo Sigismondo Pandolfo, presentando anche un cartiglio in cui sono riconoscibili le parole Tempus…, tempus….
Il cimiero della pantera
Di questo cimiero (figg. 23-24) abbiamo un solo esempio: è parte del secondo stemma che affianca l’altorilievo del San Giorgio, di cui abbiamo parlato in precedenza. Dovrebbe trattarsi di una pantera – e non un leopardo, come alcuni sostengono, dato che quest’ultimo ha caratteristiche araldicamente rappresentate in maniera differente: una su tutte, in araldica è la pantera, e non il leopardo, ad avere un manto maculato. Risalirebbe quindi all’epoca di Andrea Malatesta, e viene comunemente messa in relazione al matrimonio (1408) di Antonia, figlia di Andrea Malatesta, con Giovanni Maria Visconti (*1388 +1412), al patrimonio araldico della cui famiglia apparterrebbe. È possibile infatti che vi sia un collegamento con l’impresa del leopardo galeato di Gian Galeazzo Visconti (padre di Giovanni Maria e per il quale Andrea militò), elaborazione e trasformazione del leone galeato di Bernabò Visconti (*1323 +1385) (9).
(1) Pasini P.G., I Malatesti e l’arte, Milano 1983, p. 132.
(2) Volpe G., Battistelli F., Matteo Nuti: architetto dei Malatesta, Venezia 1989, p. 28.
(3) Il manoscritto, custodito presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini, fu dedicato a Carlo («clarissimam prolem generis incliti Carolum»), che nacque nel 1368. Siamo certi di un arco temporale così stretto perché nell’operetta viene citato Galeotto Belfiore, ultimo nato del signore di Rimini Galeotto, nato appunto nel 1377. Le ultime parole dell’opera sono «magnanimus et gloriosus princeps dominus Galaotus, eius gesta libro indigent magno», il che rende chiaro che l’opera venne composta prima della morte di Galeotto, avvenuta nel 1385. Cfr. Massèra A.F., Prefazione alla Marcha di Marco Battagli, in Rerum italicarum scriptores, tomo XVI, parte III, Città di Castello 1913, pp. XLVII-XLVIII.
(4) Per meglio dire, la corona ora è assente, perché secondo Francesco Gaetano Battaglini (Memorie istoriche di Rimino e de’ suoi signori, Bologna 1789, p. 220) essa era presente e ben visibile. Forse se ne sono perse le tracce in seguito alla scriteriata ridipintura.
(5) Sul possibile significato della doppia P («Pandulphus Princeps») cfr. Nicolini S., Alcune note su codici riminesi e malatestiani, in Studi romagnoli, XXXIX (1988), pp. 17-39.
(6) Non va dimenticato che tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV furono relativamente stretti i rapporti tra le due famiglie: Antonia, figlia di Andrea Malatesta, andò sposa nel 1408 a Giovanni Maria Visconti; Pandolfo III militò per i Visconti ed ottenne, come pagamento per i servizi resi, la città di Brescia (1404), che tenne fino a quando non gli fu sottratta dal Carmagnola (1421).
(7) Per il testo dell’epigrafe cfr. Guerrieri G., La torre malatestiana di San Giorgio di Cesena, in Atti della giornata di studi malatestiani a Cesena, Rimini 1990, p. 32.
(8) Roberto Malatesta (+ 1482) lasciò due figli naturali poi legittimati: Pandolfo IV e Carlo. La discendenza di Pandolfo IV si estinse a Venezia, agli inizi del secolo XVIII, con il padre Roberto gesuita (1639-1708) e con la sorella, suor Gridonia (1630-1709), una delle fondatrici del monastero dell’Immacolata, a cui fu poi attribuito il titolo di Venerabile. La discendenza di Carlo, invece si estinse nelle sorelle Cristina (+ 1712) e Lucrezia (+ 1714), sposate rispettivamente ai nobili veneziani Nicolò Boldù e Stefano Sceriman. Fu Roberto Boldù, bisnipote di Cristina Malatesta, a donare al Museo Correr questo codice insieme a molti altri documenti relativi alla famiglia Malatesta. Cfr. Giovanni Berchet, I Malatesta a Venezia, Venezia 1862; Gian Ludovico Masetti Zannini, Anna Falcioni, La signoria di Pandolfo IV Malatesti: 1482-1528, Rimini 2003, p. 189; Pietro Caselli, L’impresa araldica dell’ultimo Signore di Rimini: Pandolfo IV Malatesta, in La piè: rassegna di illustrazione romagnola, 1994, a.63, n.4 (lugl.-ag. 1994), pp.158-161.
(9) Rocculi G., Un’impresa decifrata: il “leopardo galeato”, in Atti della Società Italiana di Studi Araldici, vol. XVIII, Milano 2009, pp. 207-230.
Luca Barducci, riminese di ascendenze sammarinesi, quasi veterinario, appassionato cultore di storia patria, da diversi anni si dedica allo studio dell’araldica malatestiana, e di quella romagnola più in generale.
lbarducci@libero.it
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