La cavalleria del 1400

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Capitolo tratto dal mio libro “Anghiari 29 giugno 1440”

Non si può parlare della cavalleria nell’Italia del ‘400 senza prima soffermarci sull’armatura usata dai cavalieri in quel periodo. Questa era di piastra d’acciaio da capo a piede, di tempra molto resistente ottenuta grazie ad un processo di lavorazione superficiale a freddo che ne rendeva la pellicola esterna compatta, durissima e molto risplendente.

Le armature migliori all’epoca erano fatte proprio in Italia con Milano suo centro di produzione non solo per la penisola ma anche per tutta l’Europa, centro sia per l’inventiva tecnica, sia per l’esecuzione artigiana. Gli armaioli milanesi esportavano in Inghilterra, Spagna, Francia , Germania e al sud est arrivavano fino all’Egeo. Gli stati stranieri mandavano i loro armaioli a Milano ad apprendere l’arte della fabbricazione delle armature, inoltre cercavano di attirare i fabbricanti milanesi nelle loro città incentivando la fondazione di nuove officine1.

In Italia questi bravissimi artigiani aprirono fabbriche a Brescia, Mantova, Modena, Ferrara, Venezia, Urbino, Roma e Napoli.

La produzione degli armaioli milanesi di quel periodo rese famoso nel mondo il nome della loro città e tra le famiglie più famose che fondarono dinastie artigiane si ricordano i Corio, i Vimercate, i Mondrone e specialmente i Missaglia che tra tutti ottennero maggiori riconoscimenti, nel 1435 Filippo Maria Visconti nominò Tommaso Missaglia cavaliere e nel 1450 lo stesso sarà esentato dalle tasse da Francesco Sforza.

Soprattutto rinomata era l’efficienza delle stesse officine di fabbricanti di armi, un esempio viene dato dai due armaioli milanesi che dopo la sconfitta di Maclodio del 1427, in cui tutte le truppe del Visconti vennero disarmate, in pochi giorni rifornirono di nuove armi e armature 4000 cavalieri e 2000 fanti2. Sicuramente questi due fabbricanti non avevano lavorato da soli, si sa che le grandi famiglie di armaioli davano lavoro a molte persone, anche a interi villaggi per la produzione in serie di armature.

Queste armature italiane erano molto perfezionate ed offrivano al cavaliere il massimo della protezione assieme ad una buona libertà di movimento. Il loro peso si aggirava intorno ai 20-25 chili e, come dicevamo sopra, avevano una grande resistenza ai colpi, tanto da aver il merito delle così poche morti nelle battaglie campali del ‘400.

In compenso i problemi venivano dalla mancanza di areazione che assieme al peso creavano grosse difficoltà agli uomini costretti talvolta a combattere nel caldo dell’estate italiana come appunto successe ad Anghiari. Un altro svantaggio era dato dalla poca visibilità dell’elmo chiuso, da cui la preferenza per molti cavalieri di indossare elmi aperti come è testimoniato dalle iconografie del periodo, vedi appunto il fronte di cassone sulla battaglia di Anghiari della National Gallery di Dublino, dove molti cavalieri portano la celata aperta a T.

  armatura

Nei registri contabili della condotta di ventura di Micheletto Attendolo conservati alla Fraternita dei Laici di Arezzo si possono trovare molte notizie sul costo di un’armatura e anche delle singole parti.

Ad esempio un elmetto a becco di passero chiamato così per la sua forma, poteva costare 4 ducati o anche 6 fiorini1, queste due monete avevano all’epoca quasi lo stesso valore, mentre una celata costava 2 fiorini2. La corazza variava dagli 8 ducati ai 15 fino ai 17 ducati per le più raffinate3. Invece la panziera, cioè la protezione in lamine del ventre e delle cosce, da un fiorino ai 3 fiorini o ducati4. Veniamo agli arnesi o gambiere delle quali un paio venivano a costare 6 fiorini mentre i guanti di ferro un solo fiorino 5. Un’armatura completa per lo stesso capitano Micheletto viene acquistata a 28 fiorini e bolognini 32, comperata ad Ancona da un milanese di nome Giovanni da Castelletto6, dal costo è probabile che questa sia stata un’armatura da guerra cioè non tanto pregiata. Questa non era l’unica armatura che aveva il condottiero che anzi ne possedeva di svariate, a differenza dei suoi capitani di condotta come ad esempio Todero da Lecce che ferito nel petto ad Anghiari di un colpo di lancia, tre mesi dopo, guarito si reca a Firenze per far fare “lo petto della sua corazza” 7.

Mentre altri capitani più importanti, possedevano più pezzi d’armatura da usare come ricambio, per esempio al capo squadra Tartaglia d’Arezzo nel maggio 1439 viene stimata 6 fiorini una corazza insieme a due paia di arnesi e nel giugno 1440 lo stesso compera un’altra corazza, guanti di ferro e un paio di arnesi al costo complessivo di 86 lire e soldi 128.

Veniamo ora alla struttura della condotta di ventura, su tale argomento i migliori studi sono stati fatti dal Mallett, dal Del Treppo e dal Balestracci9.

L’unità base era la lancia formata da tre uomini: il primo cavaliere o capo lancia, il secondo cavaliere o piatto e infine il paggio o ragazzo. In battaglia soltanto i primi due si impegnavano in combattimento, il paggio rimaneva in retroguardia pronto ad aiutare i cavalieri, sostituendo le armi rotte o portando cavalli freschi, comunque nella vita di ogni giorno il paggio doveva occuparsi degli approvvigionamenti, dei cavalli, della pulizia delle armi ecc.

Un capo lancia poteva comandare una condotta di una sola lancia o anche più lance, in questo caso nei registri del Viviano, egli viene chiamato caporale o compagno.

Nei registri la scrittura tre lance o 9 cavalli intende la stessa cosa, spesso però succedeva che le lance non erano complete, causa decessi, defezioni o ingaggi di singoli cavalieri e perciò non erano in numero multiplo di tre così la consistenza della condotta veniva calcolata nel numero dei cavalli e non nel numero delle lance.

Micheletto aveva alle sue dipendenze numerose condotte di poche lance, nel giugno 1440 la sua compagnia aveva infatti su 44 condotte ben 21 con un numero di cavalli inferiore alle 10 unità. Ma non mancavano i contingenti numerosi come quello dello stesso Attendolo con 267 cavalli o del signore di Carpi con 90 cavalli, Marco degli Attendoli con 111 cavalli o Betuccio de Cortesi con 159 cavalli10.

Astorgio Manfredi

Con il termine uomo d’arme venivano indicati tutti i cavalieri armati ma nei registri spesso viene inteso così il capo lancia, mentre con il termine compagno veniva indicato il comandante di una condotta anche piccola, sottintendendo così il suo rapporto alla pari nei confronti del condottiero o del caposquadra.

Con famiglio invece si intendeva il cavaliere alle dirette dipendenze del capitano, che faceva parte dei più fidati, appartenente alla “casa” del signore. Per esempio, Betuccio de Cortesi nel 1439 aveva alle sue dipendenze 50 lance, delle quali 29 appartenevano ai suoi 15 compagni mentre le rimanenti 21 facevano parte della sua “casa” composta da famigli, mentre Marco degli Attendoli nell’aprile 1440 su 108 cavalli della condotta, 50 erano famigli e il resto cavalli dei compagni.

Betuccio de Cortesi e Marco degli Attendoli erano capisquadra cioè conduttori di compagnie scelti direttamente da Micheletto, ne fa prova il numero elevato di cavalli nelle loro condotte. Altri capisquadra nei registri del Viviano non sono facilmente identificabili, ad esempio Tartaglia d’Arezzo nel libro 3574, che va da 1439 al 1441, appare sempre con una condotta di 18 cavalli, pochi per un caposquadra, questi però non sono altro che i suoi famigli, infatti in una nota a fondo pagina del foglio c. 164v del libro stesso, appare un elenco dei compagni di Tartaglia datato aprile 1440. Questi sono: Antonello di Lombardia, Mattioccio, Arrigo da Salerno, Cola Scrima, Giovanni Schiavo, Fraruffino, Jacopo di Fraruffino e Stefano da Matera 1 .

I componenti delle condotte di ventura italiane del periodo provenivano dalla nostra penisola nella quasi totalità, almeno per la cavalleria. A riguardo Mario Del Treppo fa un’interessante analisi proprio della compagnia di Micheletto, esaminando i registri del Viviano prende un campione di 450 capitani, lungo grosso modo tutto l’arco di vita della compagnia stessa2.

Da questa analisi risultano solo 26 stranieri di cui 10 tra slavi, albanesi e greci, residenti nel sud Italia, il resto sono francesi, provenzali, tedeschi e ungheresi.

Dei capitani italiani 131 provengono dal regno di Napoli e 161 dallo stato della Chiesa che comprende Lazio, Umbria, Marche, Romagna ed Emilia, i rimanenti 142 provengono dalla Toscana e dall’Italia del nord. Le regioni maggiormente rappresentate sono la Lombardia con 64 uomini, seguono la Romagna con 51 e la Campania pure con 51 capitani, la Toscana con 43 unità, l’Emilia con 38 ed l’Umbria con 36. La Lombardia è in cima per il nord come abbiamo visto ma il grosso delle sue unità proviene dal contado bergamasco e bresciano da anni sotto l’influenza veneziana. Molti anche i provenienti dal regno di Napoli, grazie alla lunga esperienza militare di Micheletto in quelle terre dove era stato pure nominato feudatario. Infine un grosso numero proviene dai centri romagnoli come Cotignola, Bagnacavallo, Barbiano, Lugo, Granarolo e Brisighella, tutti luoghi originari e limitrofi della famiglia Attendolo.

Un’interessante paragone con questa analisi lo possiamo fare con gli avversari storici degli Attendolo cioè i bracceschi e precisamente utilizzando il contratto della condotta di Francesco Piccinino durante la ferma del 1432 sotto la repubblica di Siena3. Questo contratto d’ingaggio è tutto compilato per lance, ogni pagina del registro elenca i tre componenti di ogni lancia.

La prima pagina inizia con il condottiero Francesco Piccinino, assieme al suo piatto Nicolò Gioacchino da Gubbio e il paggio.

Pagina per pagina vengono nominati i nomi e la provenienza dei primi due cavalieri della lancia mentre per il paggio sono segnati solamente i caratteri somatici della sua cavalcatura, solitamente un ronzino.

Viene così elencata una compagnia con un totale di 449 cavalli e 100 fanti, di cui riguardo le forze a cavallo scopriamo che sono formate da 300 capitani e piatti e 149 paggi. Prendendo in esame solo i cavalieri, di cui sappiamo le loro generalità, abbiamo una lista su cui possiamo analizzare la provenienza come ha fatto il Del Treppo per il Micheletto.

In questo caso gli stranieri in totale sono 30, la maggior parte provenienti dal nord cioè 10 tedeschi, 8 ungheresi e 5 francesi. Le regioni italiane sono rappresentate nella loro maggioranza dalla Lombardia con 48 cavalieri dei quali 11 provenienti dalla città di Milano e dall’Umbria con 44 unità di cui ben 20 uomini dalla città di Perugia. Il resto delle regioni in decrescendo: Emilia con 21 cavalieri, Romagna con 16, Toscana con 15, Lazio con 14 ecc.

Scopriamo così che su 300 cavalieri quasi 1/3 sono originari della Lombardia e dell’Umbria probabilmente grazie ai lunghi periodi di ingaggio sotto i Visconti e alla base braccesca della compagnia originaria di Perugia.

Una compagnia di ventura non era formata soltanto da militari, infatti aveva al suo interno una moltitudine di persone non combattenti, che ogni giorno si occupavano di tutto quello di cui necessitava la compagnia stessa come l’amministrazione dei beni, il vettovagliamento ecc.

Troviamo così segretari, notai, tesorieri, spenditori tutti addetti alle varie funzioni di gestione economica della condotta, poi tutti coloro che si occupavano del vitto e del trasporto come cuochi, fornai, beccai, vetturali, mulattieri, maniscalchi ecc. C’erano anche medici, barbieri, preti, servi e spesso donne, mogli oppure tutta la famiglia del capitano o di altri ancora.

Una bella analisi riguardo queste persone la troviamo nel libro di Duccio Balestracci su Giovanni l’Acuto4 e una lista delle stesse persone, tratta dai registri del Viviano, si trova nel capitolo “I non combattenti nella compagnia di Micheletto Attendolo” da me stesso compilata.

Rispetto la paga di una condotta riporto due documenti tratti dai registri del Viviano.

Il primo si trova nella busta 3604 contenente documenti diversi non numerati, si riferisce al contratto d’ingaggio della compagnia con Francesco Sforza nel Maggio 1439 per tre mesi a 6 fiorini per lancia. Il documento non specifica ma probabilmente i 6 fiorini sono intesi al mese, prosegue poi con un ulteriore rinnovo dopo i tre mesi a 8 fiorini per lancia.

Come secondo documento riporto la esaudiente pubblicazione di Mario Del Treppo riguardo al periodo della ferma di Micheletto con Venezia nel 1444-1445, nella quale si legge: “Lancia ha nel mese lire 50; Capo de lancia ha nel mese lire 22, soldi 10; Plato nel mese lire 16, soldi 10; Ronzino nel mese lire 11, soldi 05.

Verso la metà del ‘400 il valore di un fiorino corrispondeva a circa 5 lire.

Tutte le condotte di ventura del periodo portavano uno stendardo da esibire in battaglia o nelle parate, raffigurante la “divisa” del proprio condottiero.

La compagnia di Micheletto Attendolo mostrava la bandiera con le onde d’azzurro e d’argento inquartate con il campo rosso. Da un documento dei registri del Viviano apprendiamo che essa era tutta di tessuto serico, acquistato presso un certo Mattia di mastro Luca setaiolo, mentre la manifattura era di Antonio banderaro. In seguito sopra i quarti di rosso, veniva dipinto l’emblema eseguito dalla bottega fiorentina di Pesello ma il documento non ci dice il soggetto dello stesso, probabilmente il liocorno oppure i pomi cotogni.

Tra il tessuto e il lavoro questa bandiera veniva a costare circa 44 fiorini6.

Inoltre le compagnie portavano anche gli stendardi delle città o signorie dalle quali venivano ingaggiate. Tra il 1431 e il 1433, periodo delle due ferme di Micheletto sotto Firenze, nei registri appare più volte menzione di stendardi o bandiere col giglio. Nell’ottobre 1432 la signoria dona all’Attendolo, probabilmente per i meriti alla battaglia di San Romano, “ una bandera collo giglio, un almetto collo giglio, un chavallo covertato di chermosy e brochato d’oro7.

Altre bandiere vengono poste sulla sommità dei padiglioni da campo, che però non sono in taffettà come quelle appena viste ma sono in boccaccino ( tessuto di cotone ) azzurro per il campo, con sopra un leone giallo, che in maniera inequivocabile rappresenta lo stemma Attendolo8.

Gli stessi padiglioni ( paviglonj ) invece potevano esser fatti di pannolino bianco ed in seguito dipinti di rosso e azzurro o decorati con i pomi cotogni, ma potevano anche esser di tela rossa dipinta.

Altri drappi molto usati negli eserciti del tempo erano i pennoni da trombetta, adoperati prevalentemente dai trombettieri appartenenti alla “casa” del signore.

Micheletto ne aveva vari alle sue dipendenze, nel periodo della battaglia di Anghiari nei registri sono segnati in paga tre trombetti. Dopo il 1441 con la ferma sotto la repubblica di Venezia e con l’aumento del numero dei cavalli della condotta probabilmente questi aumentarono di numero. Infatti nel registro 3593 riguardante le uscite intraprese dalla “casa” di Micheletto dal 1439 al 1446, che comprende i primi 6 anni sotto Venezia, varie volte vengono menzionati acquisti di pennone da trombetta, nel 1441 ne vengono comperati 4, nel 1445 6.

Anche questi come gli stendardi, erano fatti in tessuto serico, alla divisa del signore, per il campo rosso era adoperato il teffettà cremisi o il rosso di grana, per le onde, il taffettà bianco e l’alessandrino ( azzurro variegato d’oro )9. Alcune volte nei registri, assieme ai tessuti di bianco e di alessandrino viene menzionato anche il tessuto di giallo o oro, forse usato per l’emblema ( i pomi cotogni? ) da applicare sul campo rosso. Nel 1445 i 6 pennoni prima citati ebbero il costo complessivo di 87 fiorini.

Comunque i trombetti non appartenevano soltanto al condottiero, anche alcuni capitani importanti potevano averne alcuni nella propria condotta.

Betuccio de Cortesi l’otto giugno 1440 paga 8 fiorini per “uno penone da tronbetta collo lione10, questo leone non è un’impresa appartenente al Cortesi ma è lo stemma degli Attendolo, più avanti vedremo ancora altri casi simili dove i capitani subalterni adottano la divisa del comandante in capo.

Veniamo agli emblemi o simboli di riconoscimento portati dai vari capitani.

Nei registri del Viviano appare molte volte l’impresa del liocorno portata sulle giornee, appartenente allo stesso comandante in capo Micheletto degli Attendoli. Nel 1441 egli dispone di far fare tre giornee di velluto di cremisi con i liocorni per i suoi tre figli maschi: Jacopo Sforza, Raimondo Vittorioso e Pietro Antonio, utilizzando gli stessi liocorni presenti su una sua vecchia giornea11.

Non solo su giornee ma anche sulle lance da combattimento del signore vengono riprodotti i liocorni che saranno d’oro fine.

Abbiamo poi l’emblema del drago usato dall’Attendolo come cimiero per due elmetti, di questa impresa parleremo nel capitolo sull’araldica, in riferimento a due bandiere con il drago, rappresentate su due cassoni raffiguranti proprio la battaglia di Anghiari.

Un altro capitano i cui emblemi appaiono nei registri è Marco degli Attendoli detto Marchetto, parente di Micheletto fa parte della condotta dal 1431 fino al 1446. Il Viviano menziona per lui ben tre imprese tutte su giornea, la prima nel 1433 formata da tre razzi o raggi d’argento12 e le altre due pressappoco all’epoca della battaglia di Anghiari, una raffigurante le trappole mentre l’altra le lanterne13 (tav. 8). Infine ancora una giornea di sua divisa fatta da braccia tre e ½ di rosato di grana, più braccia tre di panno bianco e celeste che altro non è che la divisa della famiglia Attendolo a cui Marchetto appartiene. Inoltre gli stessi colori rosso, bianco e azzurro decoreranno le calze dei suoi famigli principali14.

Sfortunatamente il contabile non menziona le imprese degli altri capitani, però di molti descrive i colori delle rispettive giornee e delle frange, ad esempio di Betuccio de Cortesi da Cotignola dice che adotta la divisa Attendolo, infatti le giornee dei garzoni di “casa” sua sono decorate con i colori rosso bianco e celeste15questo fa desumere che anche i famigli di Bettuccio portassero la stessa divisa. Betuccio infatti, è un vecchio compagno che segue Micheletto dal 1431, ha con sé la più numerosa squadra della condotta dopo il capitano e fa parte di una famiglia di Cotignola assai vicina agli Attendolo.

Altri capitani ancora portano questa divisa pur non appartendo alla famiglia degli Attendolo, come Bagnacavallo che viene da Bagnacavallo vicino Cotignola e Moschino ed il suo compagno Antonio dei quali il Viviano però non dice la provenienza16.

Molti altri capitani sono ricordati nei registri con proprie divise, come Tartaglia d’Arezzo (tav.6) i cui famigli hanno le giornee di panno scarlatto e bianco17, ancora rosso e bianco sono portati da Antonello e Francesco Seguro, Carnecina e Ragazzino18.

Orso Orsini possiede una giornea con la frangia dai colori della sua divisa, che sono: cremisi, verde, nero ed oro, mentre Raffaello di Vramonte signore di Carpi ha la frangia della divisa decorata d’argento19.

Paolino da Barbiano possiede giornee e calze per la divisa fatte di braccia 14 e mezzo di panno fine così suddiviso: braccia 12 di bianco, braccia 1 e mezzo di rosso e braccia 1 e mezzo di verde, (anche se la somma della suddivisione supera di mezzo braccio il numero di 14)20.

Calze turchine invece per i famigli di Marinino da Bologna e giornee celesti per Renzo da Roma e i suoi famigli21 .

Interessante è una nota del gennaio 1441 riportata dal Viviano circa la manfifattura e il fornimentto di 22 giornee per Seguranza da Vico della sua divisa, sebbene lo scritto non specifichi nemmeno i colori di questa, è importante notare il numero delle giornee in quanto questo capitano all’epoca aveva una condotta di 21 cavalli, perciò tutti i suoi, compresi i paggi portavano il suo emblema sulle giornee.

La giornea era una sopravveste prevalentemente maschile e militare che aperta da entrambi i lati permetteva un agile movimento delle braccia. Era fatta solitamente di seta, velluto o bambagio ( sorta di stoffa fabbricata con scarti di cotone ), poteva essere piccola, grande o mezza giornea, quest’ultima copriva soltanto le spalle ed era usata specialmente in combattimento. Infatti molti cavalieri la preferivano perché a differenza della giornea completa lasciava libero il petto, evitando così eventuali appigli ai colpi di lancia che spesso potevano, senza incontrare resistenza, scivolare sull’acciaio della corazza. Nel cassone di Dublino sulla battaglia di Anghiari appaiono molti cavalieri, da una parte e dall’altra con la mezza giornea.

L’emblema sulla giornea poteva venir cucito, ricamato o anche dipinto, nel citato registro 3593 riguardante le “uscite” della “casa” di Micheletto, vengono menzionate spesso giornee alla divisa del signore o da famigli, dove con le due espressioni si indica la stessa cosa.

Nel maggio 1439 venne pagato un certo Giovanni di Buonaiuto falsettaio di Firenze, per la realizzazione di 130 giornee della divisa al costo complessivo di 460 fiorini22.

Grazie all’aiuto di questi documenti originali del Viviano, possiamo farci un’idea abbastanza reale dell’uso della “divisa” sui panni indossati dai cavalieri delle condotte del periodo.

Una buona parte di militari osservava una certa uniformità portando la divisa del condottiero, nel caso della compagnia di Micheletto, l’emblema degli Attendolo era portato da tutti i famigli appartenenti alla “casa” del signore, nonché dai famigli di Betuccio e di Marchetto, inoltre anche altre compagnie più piccole portavano lo stesso emblema.

A riguardo, grazie ai dati in nostro possesso tratti appunto dai registri del Viviano, possiamo stilare una statistica del numero dei cavalieri che indossavano questa divisa. Abbiamo visto che Micheletto aveva un contingente di 267 cavalli dei quali molto probabilmente tutti, compresi i paggi, portavano i suoi colori; a questi possiamo aggiungere i 63 famigli di Betuccio e i 50 di Micheletto e le piccole compagnie di Moschino e Antonio, Bagnocavallo e Corrado tedesco che dai registri risulta portassero gli stessi colori degli Attendolo, tutti insieme totalizzavano 25 cavalli. Infine i conestabili Francesco da Bibiena e Cristofano da Cremona che appartenevano al signore e possedevano, oltre ai fanti, 27 cavalli in tutto.

Abbiamo così un totale di 452 cavalieri su un complessivo di circa 1120 che fanno circa il 25 % di tutta la compagnia.

Tutto il resto, cioè quella miriade di piccole condotte guidate dai compagni, portava una divisa diversa con i colori del proprio comandante. Ma non tutti possedevano la giornea, anzi come dimostrano i dipinti del tempo, molti combattevano senza simboli di riconoscimento sopra l’armatura. Tanti caporali, non avendo il denaro per “vestire” i propri subalterni, erano i soli ad indossare la giornea decorata con la propria divisa, mentre molti altri capi lancia non avevano la possibilità di “vestire” nemmeno sé stessi.

Un altro segno di riconoscimento erano i pennacchi, che venivano montati con un fissaggio sulla sommità di elmetti e celate, essi erano maggiormente usati rispetto ai cimieri di cuoio bollito o di bambagia.

Portati solo da capitani o compagni e, dai famigli del signore, solitamente erano composti da penne di struzzo colorate, per lo più con i colori del comandante in capo.

Il numero delle penne per cimiero variava molto, all’inizio del libro 3593 dei registri in data settembre 1439 troviamo una lista di 17 famigli del Micheletto, ai quali viene dato in dotazione un pennacchio a testa. Questo poteva essere formato da due sole penne come quello portato da Antonello da Baschi, da 10 penne come quello di Agostino di Francalancia, da 22 penne di Giovanni da Crema fino a 25 quello di Antonaccio.

Anche Micheletto compare nella lista con due pennacchi, uno fatto da 30 penne di struzzo e 5 di pavone e l’altro con 16 di struzzo e 7 di pavone, quest’ultimo fissato sopra un elmetto con il cimiero del drago23.

Oltre al numero anche i colori delle penne erano rappresentati in proporzione variabile, nella busta 3604 contenente documenti diversi non numerati, ci sono due liste di pennacchi di vari capitani, tra i quali compaiono Carnecina che possiede 17 penne bianche, 2 rosse e 6 azzurre, Cola Scrima 7 bianche, 3 rosse e 15 azzurre, Olivo da Barbiano con 50 penne bianche, 5 azzurre e 5 rosse24. Questi capitani portavano i colori Attendolo, altri ancora compaiono con colori diversi e non sempre quelli della propria divisa: Fraruffino possiede 8 penne bianche, 8 rosse, 8 verdi e una azzurra, Giovanni da Casale 25 bianche, Rugeri Picinino 10 verdi e bianche e 10 rosse, Tartaglia d’Arezzo 8 bianche, 8 nere e 8 verdi.

Dal numero variabile delle penne e dei colori si deduce che ogni pennacchio era personale e particolare, variava anche nella forma come lo dimostrano le iconografie del periodo. Il loro uso non era solamente decorativo ma specialmente era un “alto” segno di riconoscimento nel mezzo di una battaglia, era quasi una piccola “bandiera” che segnalava a tutti il movimento di ogni singolo comandante di condotta.

Secondo alcuni storici moderni l’uso dei pennacchi e dei cimieri era più un fatto raffigurativo dei pittori dell’epoca che un reale utilizzo in battaglia, ma i registri di Micheletto provano il contrario. Nel libro 3574 il Viviano registra per il giorno 25 giugno, 4 giorni prima della battaglia di Anghiari, il pagamento di forniture di pennacchi per 13 capitani e alcuni loro compagni25. Certamente nessuno nell’esercito della lega, accampato ad Anghiari, sapeva che ci sarebbe stato uno scontro da lì a quattro giorni ma i milanesi erano vicini ( il Piccinino aveva il campo tra Città di Castello e Borgo Sansepolcro ) e tutti ormai si aspettavano uno scontro campale non sicuramente un torneo o una sfilata.

Abbiamo poi le barde da cavallo che solitamente erano dipinte con i simboli araldici dei capitani, nei dipinti dell’epoca raffiguranti battaglie, specialmente sui cassoni per nozze si possono ammirare queste splendide bardature riccamente decorate. Nei registri sono menzionate come coverte da cavallo o paramenti o ancora armadure da cavallo, sono fatte di cuoio oppure di velluto, come quella per Micheletto la quale era di velluto azzurro in broccato d’oro, dal costo di 208 fiorini26.

Altre barde sono molto più economiche “ ducati otto furono duno paro di covertte dipintte per Francalancia da Pisa”, oppure “ fiorini 10 per uno paro di coverte dipinte per Bagnacavallo da Bagnacavallo27. Nel libro 3593 si trovano anche elencati i singoli pezzi di una bardatura con il relativo costo, fiancali, groppiere, redini e pettorali, tutti in cuoio rosso per fiorini 1628.

Comunque dai documenti si evince che le barde sono prerogativa dei capitani e di alcuni loro compagni, nel libro 3561 che tratta della ferma della compagnia sotto re Renato d’Angiò dal 1435 al 1439, vengono menzionati cinque capitani: Marco degli Attendoli, Betuccio de Cortesi, Colella da Castellaneta, Villano di Bembo e Francesco da Bibiena e tre compagni: Ector, Antonello da Capodistria e Bersichella, ai quali vengono consegnati un paio di coverte bianche da cavallo. Il costo per coverta è solo di 5 fiorini, probabilmente queste verranno in seguito dipinte29.

Un’altra lista dello stesso tipo si trova nella busta 3604 contenente fogli sparsi, dove vengono elencati 15 capitani possessori di uno o anche di due para di coverte. Tra loro c’è anche Micheletto con ben 9 para di coverte e un certo Braccio con una armadura da cavallo.

In ogni caso i registri della compagnia non forniscono molte notizie riguardo le protezioni dei cavalli, dai dati in possesso si può dedurre che erano pochi gli equini bardati nelle condotte del periodo, la stragrande maggioranza erano provvisti solamente dei semplici finimenti.

La mancanza di protezioni era senz’altro la causa dell’altro numero di perdite di cavalli nelle battaglie di quel tempo, come successe proprio ad Anghiari dove morirono 600 quadrupedi.

Una sola bardatura con l’emblema viene nominata dal Viviano ed è quella di un certo capitano Corrado todescho cioè alemanno, possessore di uno paramento da cavallo colly lionj dal costo di 4 fiorini e 28 bolognini30. Questi leoni dovrebbero essere sempre quelli dello stemma Attendolo.

Curiosamente i registri nominano anche le coverte dei muli usati come bestie da soma che erano rosse31.

Per concludere l’argomento sulle barde e giornee, intese come protezioni e indumenti nonché supporto per gli emblemi, non resta che citare lo scritto a riguardo di Cennino Cennini ne “Il libro dell’arte” alla fine del XIV° secolo. Nel capitolo “Come dèi lavorare coperte da cavalli, divise e giornee per torneamenti e per giostre” egli spiega che l’emblema o divisa deve essere dipinta su un supporto di carta bambagina sapientemente preparato e in seguito applicato o cucito sulle giornee e le coverte dei cavalli. Il Cennini comunque specifica che tali giornee e coverte erano usate per tornei o giostre e non ne fa riferimento riguardo al loro uso in battaglia32.

Elenco di penne per capitani della condotta di Micheletto tratto dalla busta 3604 contenente fogli sparsi, questo foglio è privo di data.

Olivo penne 50 bianche et 5 azurre et 5 rosse summa in tutto penne 60

Aniballi Bentivogly penne 13 azurre et penne 12 bianche penne 24

Fraruffino penne 8 bianche et 8 rosse et 8 verdi et 1 azurra penne 24

Rogeri Pizinino penne vinti 10 bianche et 10 rosse penne 20

Per casa avimo colorj penne alla divisa 200

Torso ave vinti penne 20 meze bianche e meze rosse

Boso Sforza penne 40 14 rosse 13 bianche 13 azurre summa in tutto penne 40

?archetto penne 16 bianche 16

Tartaglia darizo penne 8 bianche 8 nere 8 verdi in tutto 24

Iacomo dalla ?la penne bianche 26

Betasio homo darmi di Marchetto ave vinti da b? penne vinti cinque

17 bianche 3 verdi 5 rosse 25

1 Quasi tutti questi capitani appaiono con i loro rispettivi cavalli nella tabella di Ordini di battaglia.

2 M. del Treppo, Gli aspetti organizzativi economici e sociali di una compagnia di ventura italiana , in “Nuova rivista storica”, 69°, 1985, pp. 253 – 275.

3 Archivio di Stato di Siena, Biccherna 261, 1432, Ruolo della compagnia di Francesco di Niccolò Piccinino.

4D. Balestracci, cit, pp.56 – 61.

5 M. Del Treppo, Sulla struttura della compagnia o condotta militare, cit. p. 418.

6 F. Viviano, cit. libro 3593 c. 71v.

7 F. Viviano, cit. libro 3591 c. 106v.

8 F. Viviano, cit. libro 3593 c. 79r.

9 F. Viviano, cit. libro 3593 cc. 72v, 110v e 205r.

10 F. Viviano, cit. libro 3574 c. 134v.

11 F. Viviano, cit. libro 3593 c. 68r.

12 F. Viviano, cit. libro 3558 c. 138r

13 F. Viviano, cit. libro 3574 cc. 77r e 118r.

14 F. Viviano, cit. libro 3574 c. 160v.

15 F. Viviano, cit. libro 3574 c. 195r.

16 F. Viviano, cit. libro 3574 cc. 53r e 152v.

17 F. Viviano, cit. libro 3573 c. 147v.

18 F. Viviano, cit. libro 3574 cc. 61r e 168v.

19 F. Viviano, cit. libro 3574 cc. 33r e 105r.

20 F. Viviano, cit. libro 3574 c. 173r.

21 F. Viviano, cit. libro 3574 cc. 73v e 50r.

22 F. Viviano, cit. libro 3593 c. 11v.

23F. Viviano, cit. libro 3593 cc. 3r e 4v.

24 In questo caso Olivo da Barbiano ha un totale di 60 penne ed è probabile che queste venissero ripartite in più pennacchi. Nei registri infatti, vengono nominati pennacchi al massimo di 25 penne o di 35 come quello appena visto di Micheletto.

25 F. Viviano, cit. libro 3574 cc. 103v, 120r, 135v, 144v, alcuni esempi.

26 F. Viviano, cit. libro 3593 c.93r.

27 F. Viviano, cit. libro 3560 c. 121r e libro 3557 c12r.

28 F. Viviano, cit. libro 3593 c. 52r.

29 F. Viviano, cit. libro 3561 cc. 14v, 62r, 90v, 156r e 164v.

30 F. Viviano, cit. libro 3574 c. 86r.

31 F. Viviano, cit. libro 3356 cc. 20r e 47v.

32 C. Cennini, Il libro dell’arte, Vicenza 1982, p. 176.

1 F. Viviano, Registri della compagnia di Micheletto Attendolo , nella Fraternita dei Laici di Arezzo, libro 3574 c. 156v e libro 3569 c. 41.

2 F. Viviano, cit. libro 3593 c. 37r.

3 F. Viviano, cit. libro 3574 cc. 50r, 111r e 182v.

4 F. Viviano, cit. libro 3574 cc. 48r. e 141v. e libro 3569 c. 51.

5 F. Viviano, cit. libro 3574 cc. 77r e 108v, libro 3593 c. 31v.

6 F. Viviano, cit. libro 3593 c. 62v.

7 F. Viviano, cit. libro 3574 c. 135r.

8 F. Viviano, cit. libro 3561 c. 171v e libro 3574 c. 108v.

9 M. Mallett, Signori e mercenari , Il Mulino 1983 ; M. Del Treppo, Sulla struttura della compagnia o condotta militare in “Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del rinascimento” Napoli 2001; D. Balestracci, Le armi i cavalli l’oro , Ed. Laterza, 2003.

10 Vedi cap. Ordini di battaglia tabella dei capitani di Micheletto ad Anghiari.

1 Storia di Milano, Treccani, 1958, XI, p. 701.

2 Storia di Milano, Treccani , cit. p. 714; R.Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, 1964, vol.II, p.387.

 

 

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