Da Soldatini num. 105, marzo-aprile 2014
Nell’Archivio di Stato di Fano sono conservati i registri delle spese sostenute da Pandolfo III Malatesta durante la sua signoria a Brescia e Bergamo all’inizio del 1400.
In questi documenti si trova uno spaccato della vita di corte dell’epoca, e la descrizione precisa dell’araldica militare adottata in quel periodo dal Malatesta e dalla sua “casa”, quest’ultima composta da paggi, famigli, trombetti e altri stipendiati non militari.
Pandolfo, padre del più famoso Sigismondo Malatesta, divenne signore di Brescia nel 1404 durante il vuoto di potere e caos politico conseguito alla morte di Gian Galeazzo Visconti, che aveva riunito il più vasto dominio territoriale di Milano.
Approfittando del momento di profonda debolezza del ducato, retto da Caterina Visconti moglie del defunto duca, città, signorie, capitani ed eredi smembrarono tutto il territorio in poco tempo. Pandolfo, che militava nell’esercito milanese, si impossessò della signoria di Brescia nel 1404 come già detto e di Bergamo nel 1408, luoghi che tenne fino al 1421, quando ne fu scacciato dal Carmagnola, quest’ultimo agli ordini di Filippo Maria Visconti.
Nei registri sopra citati sono presenti i pagamenti effettuati per l’acquisto di armi. Troviamo tutti i tipi di armi da offesa: lance da cavallo o da fante, spade, stocchi, balestre e glavarine. Quest’ultime, dette anche chiaverine, erano una sorta di armi in asta da punta e da lancio, più tardi per alcuni studiosi prenderanno il nome di partigiane ( nella tavola il paggio tiene in mano una glavarina) .
Troviamo inoltre le armi da difesa: elmetti, celate, panciere, il gorzarino parte dell’armatura che proteggeva la gola, bracciali, spallacci, arnesi, questi erano protezioni per la parte superiore delle gambe e ancora schinieri, usati non solo dai cavalieri ma anche da alcuni fanti per tutto il secolo XV°. Infine corazze, targoni e i paramenti per i cavalli.
Nei registri di Pandolfo sono riportati anche gli abiti. Troviamo il zupone o giuppone che sarebbe il farsetto; la pelanda o pellanda, un indumento lungo, ampio e foderato di pelliccia; la veste che poteva essere corta o lunga fino ai piedi, molto comune tra gli uomini e la immancabile giornea, aperta ai lati per agevolare i movimenti delle braccia e usata da militari e ragazzi ( nella tavola Pandolfo e il trombettiere indossano la giornea).
Poi troviamo citate camicie, braghe, la capuza o cappuccio, berretti, guanti, pennacchi e frappe che solitamente decoravano le giornee. Ma gli indumenti più frequentemente elencati sono le caligae o calze suolate, provviste cioè di suola di cuoio. Usate da tutti gli uomini, anche da Pandolfo che ne possiede un buon numero.
Queste calze vengono sempre citate assieme ai colori che le ornavano. Nei registri (in particolare i 46, 47 e 55) si trovano i seguenti abbinamenti: verde, turchino e rosato; scarlatto, bianco e bruno; bianco, rosso e azzurro, ma frequentissime sono le caligae con le tinte rosso, bianco e verde (vedi ancora il paggio nella tavola). Questi ultimi tre sono i colori araldici della “divisa” dei Malatesta, di cui esistono testimonianze d’uso per Roberto, Carlo, Sigismondo Malatesta e Malatesta Novello. A tal proposito abbiamo le bellissime e dimostrative miniature dell’Hesperis dedicate a Sigismondo, dove il rosso, bianco e verde sono ovunque, su calze, giornee, pennacchi, bardature e insegne (vedi La battaglia di Piombino 1448, Soldatini n° 82 ).
Nell’araldica nobiliare e militare del rinascimento vi erano tre gradi di importanza per gli emblemi. Il primo posto era occupato dallo stemma gentilizio, cioè di famiglia, a questo riguardo i Malatesta portavano uno scudo d’argento con tre bande scaccate di rosso e d’oro, circondato di bordura indentata d’oro e di nero.
Seconda per importanza era l’impresa, a connotazione personale, formata da figure allegoriche accompagnate talvolta da motto, essa poteva anche essere condivisa da altri esponenti della famiglia. Le imprese più usate dai Malatesta, erano l’elefante e la rosa.
Stemma e impresa venivano dipinte o ricamate sulle bandiere, sugli stendardi e sulle banderuole dei trombetti.
Il terzo elemento dell’araldica era la divisa formata da abbinamenti di colori, spesso diversi da quelli dello stemma, con motivi decorativi, portata su giornee, calze, paramenti dei cavalli, e meno frequentemente sulle insegne,.Come già detto i Malatesta adottavano la divisa bianca, rossa e verde.
Questo famigliare tricolore, all’epoca era usato come divisa anche delle famiglie Gonzaga, d’Este, Montefeltro, Baglioni, Medici, inoltre dai condottieri Piccinino, dal partito guelfo fiorentino e da altri ancora. I colori rosso, bianco e verde rappresentavano le tre virtù teologali: Fede, Speranza e Carità.
Ma ritornando ai testi dei registri scopriamo che la “casa” di Pandolfo, cioè Pandolfo stesso, i famigli, i paggi, portavano invece giornee ornate da due soli colori, il rosso e il verde, anche i trombetti portavano due soli colori, il rosso e verde oppure il rosso e azzurro (vedi tavola).Questo fatto dimostra una volta ancora, che l’araldica militare italiana del periodo non era legata a delle regole ferree ma lasciava molta libertà di espressione ornamentale ai suoi possessori, sia nobili che condottieri.
Veniamo ora alle insegne. Nel registro 45, riferito all’anno 1409, sono citati tre stendardi, due sono descritti così: lo standardo del alifante e lo standardo dela fiore , ambedue fatti di cendado ossia zendale (tessuto molto leggero) di colore bianco (vedi fig.1).
Nel palazzo del Broletto di Brescia sono tuttora visibili queste due imprese in un affresco strappato, assieme allo stemma dello scaccato e delle tre teste (arme “parlante” dei Malatesta). L’elefante è di colore nero con orecchie e zanne bianche, mentre la rosa ha la corolla e le foglie dorate o gialle e i petali rossi.
Il terzo stendardo è particolare, ha il campo completamente verde con l’immagine dell’elefante ed è attraversato da una croce bianca. Quest’ultimo simbolo non appartiene all’araldica malatestiana ma è il segno di riconoscimento della fazione guelfa, a cui apparteneva Pandolfo. Gli storici milanesi Corio e Giulini ricordano che all’epoca nelle guerre in Lombardia, le fazioni ducali e ghibelline si identificavano con la croce rossa mentre quelle nemiche, guelfe e alleati, con quella bianca (vedi fig.2).
Per concludere alcuni riferimenti visibili sull’illustrazione grande. Sembra che Pandolfo non si rasasse il volto, come era d’uso nel ‘400, ma portasse la barba e di colore rosso. Lo confermerebbero studi recenti operati sul suo corpo mummificato ritrovato nel 1995.
Il pennone del trombetto è tratto dai registri 33 e 51. Nel primo troviamo scritto: per braza 24 de zendado de tre colori fo per li penoni de le trombe de trombadori ducati sie, e nel 51: franza bianca rossa e verde dorata di cordone di setta di cholore tutto per 4 penoni da trombeti del signore.
Anche se nei registri appaiono spesso gli elmetti come protezioni del capo, ho voluto rappresentare il principe con il bacinetto della fine del XIV° secolo, ma che venne costruito in Italia fino al 1415, come ricorda Lionello Giorgio Boccia, nostro più grande studioso di armi e armature. Anche la barda del cavallo è d’epoca trecentesca, ma nelle iconografie appare , anche se sporadicamente, fino alla metà del ‘400. Nella tavola la bardatura o paramento è ricoperta di rose a quattro petali, impresa che nella tradizione araldica malatestiana rappresentava, assieme all’elefante, la discendenza della famiglia dal famoso Scipione l’Africano.
Per concludere l’articolo inserisco il link delle foto dell’amico Andrea Carloni scattate nel museo Di Fano, foto con vari pezzi appartenuti a Pandolfo III: https://www.flickr.com/photos/andrea_carloni/albums/72157628259772607
Bibliografia: Sezione Archivio di Stato di Fano, Codici Malatestiani, reg. 33, 45, 46, 47 e 55; A. Falcioni, Il costume e la moda nella corte di Pandolfo III Malatesta, Fano 2009; La signoria di Pandolfo III Malatesti a Brescia, Bergamo e Lecco, Centro Studi Malatestiani Rimini VIII°, Rimini 2000; G. Rimondini, L’araldica malatestiana, Rinini 1994; R. Levi Pysetzky, Storia del costume in Italia, II, Treccani 1964-1968; L.G. Boccia, E.T. Coelho, L’arte dell’armatura in Italia, Milano 1967; M. Troso, Le armi in asta delle fanterie europee (1000-1500), Novara 1988.
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