Finalmente posso pubblicare integralmente il mio vecchio studio sulle bandiere veneziane ad Agnadello, studio apparso nel 2015 sul periodico Archivio Araldico Svizzero.
Nel Museo di Appenzell, situato nell’omonimo cantone nel nord-est della Svizzera, sono conservate due bandiere di fanteria dell’esercito veneziano, catturate dagli svizzeri nella battaglia di Agnadello del 14 maggio 1509.
Esse sono state menzionate nel libro-catalogo Schweitzer Fahnenbuch pubblicato nel 1942, che raccoglie le foto e le descrizioni di tutti i vessilli conservati nei musei svizzeri1.
Le due bandiere sono rettangolari con i bordi arrotondati al battente, una forma tipica molto usata dalle fanterie all’inizio del XVI° secolo.
Ne sono prova le bandiere degli svizzeri al soldo francese che si vedono nella Cronaca Napoletana illustrata e nel Schweitzer Fahnenbuch 2. Anche nell’incisione della battaglia di Pavia di Jörg Breu si vedono le bandiere con il battente arrotondato, esibite dalle opposte fanterie svizzere e lanzichenecche.
La prima bandiera descritta nel libro-catalogo misura 150 cm. di altezza per 165 cm. di lunghezza, fatta di tela con il campo completamente bianco contornato da un bordo doppio dipinto di giallo (oro). Sul cantone superiore presso l’asta è presente il leone di San Marco d’oro con il libro chiuso, al centro del vessillo un motto d’oro dove si legge: Dispersit dedit pauperibus. Infine le frange del bordo sono dipinte in tre colori: rosso, azzurro e bianco (fig.1).
La seconda bandiera, sempre in tela, è leggermente più piccola, 150 cm. di altezza per 156 cm. di lunghezza. Il fondo è blu-azzurro contornato da un doppio bordo d’oro porta, come nel vessillo precedente, il leone di San Marco d’oro nella parte superiore, presso l’asta. Al centro troviamo una croce potenziata d’oro, contornata di nero, accantonata nel I° e nel IV° da fiamme d’oro e di rosso e nel II° e nel III° dal giglio d’oro. Le frange del bordo sono blu, gialle e bianche (fig. 2).
Quest’ultima insegna apparteneva al capitano Pietro Bourbon marchese del Monte Santa Maria, reputato tra alcuni storici contemporanei “il primo fante à piè che havesse l’Italia”, famoso per la sua l’astuzia militare1. Egli al servizio di Firenze si distinse nella lunga guerra contro Pisa e proprio in questa occasione nel 1498 sconfisse l’esercito aragonese, capitanato da Bartolomeo d’Alviano giunto in soccorso dei pisani. Francesco Sansovino racconta che il marchese del Monte ebbe successo, sebbene il suo contingente fosse inferiore di numero, in quanto collocò in mezzo ai propri cavalieri molti fanti armati di ronche che, nello scontro tagliarono le redini ai cavalli nemici, i quali rimasti senza controllo, scompaginarono le proprie file determinando la sconfitta aragonese2. Nel 1505 il capitano Bourbon passò al soldo della repubblica di Venezia, distinguendosi nel 1508 nella guerra di Trieste e alla battaglia del Cadore. In questo scontro sotto il comando del d’Alviano, escogitò di armare i suoi fanti di picche più lunghe, riuscendo così a sconfiggere i lanzichenecchi dell’imperatore Massimiliano. L’anno successivo, divenuto capitano generale delle fanterie della Serenissima, morì da valoroso alla battaglia di Agnadello dove, ancora secondo il Sansovino: il Re Lodovico XII, volle vedere il suo corpo, e lo fece seppellire con esseque reali3.
Il capitano Pietro del Monte era anche un buon letterato, scrisse opere di carattere militare come: Perti Montii Exercitorum Atque Artis Militaris Collectanea in Tris Libros Distincta, opera pubblicata nel 1509, anno della sua morte.
Una sua attenta e completa biografia è stata pubblicata nel 1991 scritta da Marie-Madeleine Fontaine1.
Il capitano apparteneva alla famiglia del Monte discendente da un ramo dei Bourbon francesi, dei quali portava l’arme: d’azzurro ai tre gigli d’oro, alla banda attraversante di rosso (fig.3)2. La famiglia era numerosa e suddivisa in molti rami collaterali stanziati tra Arezzo, Cortona, Città di Castello e Perugia. In seguito, alcuni di loro si stabilirono anche a Firenze, Pesaro e Ancona.
Pietro faceva parte del ramo di Città di Castello propriamente detto dei marchesi del Monte Santa Maria, titolo nobiliare conquistato dal nonno Cerbone, esponente guelfo e condottiero al soldo dei papi.
Allo stemma francese dei Bourbon si aggiunsero varie forme e colori a seconda del ramo di appartenenza. Un insieme araldico abbastanza complesso e variamente associato ai gigli d’oro su campo azzurro che erano una costante1.
La bandiera della figura 2 porta chiaramente i colori Bourbon-del Monte, cioè l’azzurro del campo e poi l’oro, con il quale sono dipinti tutti gli elementi all’interno del campo stesso.
In alto presso l’asta, è d’oro il leone di San Marco in “moleca”, ossia nascente dalle acque con un libro chiuso tenuto dalle zampe anteriori. Il leone è rappresentato frontalmente e accovacciato in una delle raffigurazioni più antiche del simbolo veneziano, risalente al XII° secolo. In seguito verso il XIV° secolo verrà usato anche il leone di San Marco passante, una forma che gradatamente soppianterà il leone in moleca. Terza rappresentazione del simbolo di San Marco era quella del leone rampante, meno usato dei precedenti2.
D’oro è pure il doppio bordo che contorna gli elementi della bandiera. Un motivo probabilmente ricorrente nelle insegne militari veneziane, per lo meno per quelle di fanteria, come dimostra lo stesso bordo che si vede nella bandiera della figura 1.
Al centro infine, vediamo la croce scorciata e potenziata d’oro, munita di bordo nero con, nei quattro cantoni le fiamme d’oro e di rosso e i gigli d’oro.
Senza dubbio i gigli fanno parte dello stemma Bourbon-del Monte e identificano, ancora una volta, questa bandiera come appartenente a Piero del Monte.
Le fiamme o fiammante erano un simbolo ricorrente nell’araldica militare del rinascimento. Molto usate nel quattrocento dalle compagnie di ventura, esse apparivano su giornee o barde dei cavalli inquartate con lo stemma o l’impresa principale del capitano3. In araldica rappresentano il fuoco, la lealtà, la purezza e il conseguimento della gloria. Su questa insegna il colore rosso dipinto sopra l’oro del fiammante potrebbe ricordare la banda rossa dello stemma Bourbon.
Analizziamo infine l’ultimo elemento del vessillo, la croce. Questa non fa parte dell’araldica Bourbon-del Monte ma è un antico simbolo veneziano, ne è testimonianza la Pala d’oro raffigurante l’accoglimento delle reliquie di San Marco a Venezia, opera custodita nella stessa basilica e datata dal 1000 al 1300. I veneziani che portano il sarcofago con le spoglie del santo inalberano due drappi, uno di questi è azzurro con una croce scorciata d’oro. Sempre nella basilica, un mosaico della metà del 1300, raffigurante la traslazione del corpo di Sant’Isidoro dall’isola di Chio, mostra un fante veneziano con uno scudo bianco ornato da una croce d’oro4.
Questa croce simboleggiava quella portata dall’imperatore Costantino nella battaglia del Ponte Milvio, di cui i veneziani secondo il Sanudo, ne custodivano un pezzo portato da Bisanzio. Un legame simbolico verso l’Impero romano d’Oriente da cui Venezia un tempo dipendeva1.
Possiamo vedere la croce d’oro inoltre su alcune bandiere militari veneziane del 1500 e del 1600. Queste ultime sono due riproduzioni che fanno parte della Raccolta Bassan e sono state pubblicate dall’Aldigretti, una di fanteria e l’altra di marina e appartenuta ad un bucintoro; entrambe esibiscono il leone di San Marco d’oro su campo rosso tenente con la zampa la croce(fig.4). La bandiera cinquecentesca invece è un pezzo originale risalente alla battaglia di Lepanto, conservata al Museo regionale di Capodistria. Si tratta dell’insegna che è stata portata da una nave della città istriana alla vittoriosa battaglia contro i turchi del 7 ottobre 1571. Il leone d’oro è rappresentato passante sul campo rosso, la croce d’oro è ben tenuta con la zampa destra dalla fiera (fig.5)2.
Nel corso del XVI° secolo la croce veneziana appare ancora nelle xilografie del Weißkunig (Re bianco), una descrizione letteraria e illustrata della vita dell’imperatore Massimiliano I° d’Asburgo. L’opera che illustra soprattutto le imprese militari dell’imperatore, si prolunga anche nella rappresentazione della guerra di Cambrai, raffigurando diversi eventi che coinvolgevano l’esercito veneziano e i vessilli che lo rappresentavano, questi sono costituiti da due simboli, il leone di San Marco e la croce scorciata, purtroppo tutto eseguito in bianco e nero.
Tra i fatti d’arme illustrati si possono vedere la battaglia di Agnadello, quella di Vicenza e di Gradisca inoltre gli assedi di Monselice e di Padova. Nella (fig.6) un particolare della battaglia di Gradisca con le fanterie veneziane che portano la bandiera di San Marco assieme a quella con la croce1.
Un’altra croce veneziana, dello stesso periodo e a colori, si può ammirare nel Livre des Drapeaux di Pierre Crolot del 1648, pubblicato dalla Société d’histoire du Canton di Fribourg nel 1943. Le insegne illustrate sono delle copie riprodotte su fogli di pergamena, la bandiera in questione è segnata con la numerazione 12 Bannière de Venise 11/9 e nella fig.7 se ne può vedere un particolare. La croce d’oro su fondo rosso è sul capo della bandiera e subito sotto, quasi in riverenza, il leone di San Marco passante col libro chiuso.
Bisogna segnalare però che gli studiosi di araldica hanno trovato questo vessillo insolito nella forma e complesso a causa della contemporanea presenza di più stemmi ed imprese, tanto da supporre che sia appartenuto ad una sorta di corporazione o confraternita dei farmacisti della città di Venezia1.
Probabilmente ad Agnadello la croce d’oro del marchese del Monte non era l’unica a segnare le insegne veneziane, forse lo stendardo del Pitigliano, comandante generale di Venezia, portava il capo rosso alla croce d’oro. Di certo tutti i soldati erano segnati dalla croce rossa, come ricorda il cronista Gianandrea del Prato, per distinguersi dai francesi che portavano quella bianca2. L’uso del segno di riconoscimento per i soldati divenne comune all’epoca e, a seconda della bisogna poteva essere cambiato. Infatti nella guerra della Lega di Cognac che si svolse dal 1526 al 1530 i veneziani, questa volta alleati dei francesi contro l’impero, adottarono la croce bianca in opposizione a quella rossa dei nemici3.
L’identificazione araldica della seconda bandiera richiede una breve esposizione del fatto d’arme avvenuto ad Agnadello.
La battaglia ebbe luogo durante la guerra della lega di Cambrai, nella quale la repubblica di Venezia, dovette affrontare una coalizione organizzata dal Papa Giulio II° e alla quale avevano aderito: Luigi XII° re di Francia, Massimilano I° imperatore del Sacro Romano Impero, Ferdinando II° d’Aragona re di Spagna e i ducati di Ferrara e di Mantova.
Li conflitto mise in serio pericolo l’esistenza stessa della città di San Marco che tuttavia dopo le sconfitte iniziali riuscì a risollevarsi ed infine a riconquistare buona parte dei territori perduti.
La prima e più pesante rotta fu proprio questa di Agnadello ad opera dei francesi guidati dal re stesso, Luigi XII°. Secondo gli storici i due eserciti, veneziano e francese, erano all’incirca equivalenti nel numero, ma non nella qualità delle truppe. Le due fanterie contrapposte erano formate quasi dallo stesso numero di effettivi, 20.000 uomini per parte, ma quella francese includeva 7500 mercenari svizzeri, molto abili nelle battaglie campali. Per contro i veneziani opponevano 10.000 validi fanti mercenari italiani chiamati provisionati, insieme a 10.000 ordinanze o cernite, cioè selezioni di una milizia contadina assoldata nei luoghi soggetti alla Serenissima e non sempre militarmente all’altezza dei compiti. La cavalleria francese, considerata la migliore d’Europa, era nettamente superiore con 2.300 uomini d’arme, per i cronisti d’oltralpe 3.000, contro 1.800 cavalieri avversari. Soltanto riguardo alla cavalleria leggera Venezia era più forte dei nemici, con più di 4.000 tra balestrieri a cavallo, stradiotti e cavalieri dalmati, contro 3.000 francesi nella maggior parte arcieri a cavallo e quasi tutti impiegati a supporto delle squadre dei cavalieri pesanti4.
La battaglia di Agnadello, detta anche di Ghiaradadda, coinvolse solo una parte dei due eserciti in quanto, francesi e veneziani, al momento del contatto si trovavano incolonnati, entrambi impegnati a raggiungere Pandino da due direzioni diverse. Nei pressi di Agnadello la retroguardia veneziana si scontrò con l’avanguardia dell’esercito francese e appunto a causa la considerevole distanza che intercorreva tra la testa e la coda dei due schieramenti non tutti gli effettivi riuscirono a partecipare ai combattimenti.
L’armata veneziana comandata da Niccolò Orsini conte di Pitigliano era divisa in quattro formazioni o colonelli. Sltanto l’ultimo colonello, il quarto e parte del terzo vennero coinvolti nello scontro.
Il cronista Marin Sanuto riporta con precisione la composizione di questi colonelli, ecco come viene descritto il quarto: gli uomini d’arme erano 440 guidati dal governatore Bartolomeo d’Alviano, comandante in seconda dell’esercito, poi c’erano 2/300 cavalli leggeri e circa 7.000 fanti5.
Questi ultimi erano così suddivisi: 2.200 provisionati erano comandati da Pietro del Monte, di cui 1.000 fanti appartenevano a lui stesso, 300 a Giacomo della Sassetta, 620 sotto Turchetto da Lodi e altri 300 a Pelegnino della Bandera che prendeva il posto dell’albanese Colo Mora. Ancora 1.720 fanti erano sotto il valente comando di Saccoccio da Spoleto di cui 570 erano suoi, poi 250 tedeschi guidati da un certo Todeschino e 900 vicentini, probabilmente cernite, comandate da Giacomo da Ravenna. Infine 3.000 ordinanze della Patria del Friuli e di Padova, con 1.500 uomini l’una. I friulani erano guidati da Girolamo Granchio da Mantova, già distintosi un anno prima nella battaglia del Cadore e i padovani dal Gregeto, capitano greco.
Questa lista farà da riferimento nel corso di questo studio e ci aiuterà a risalire all’appartenenza della bandiera della figura 1.
Veniamo quindi al combattimento.
I due schieramenti si trovarono divisi da un lungo fosso munito di argine, i francesi, messa davanti l’artiglieria, iniziarono a bombardare le prime file di fanteria avversaria, le quali erano formate, secondo il cronista Luigi da Porto, dalle ordinanze del Friuli e di Padova6. Queste ordinanze portavano i colori bianco e rosso sulle calze e casacche, tale segno di riconoscimento era la divisa del governatore d’Alviano che venne imposta a tutte le cernite da lui assoldate7. Gli stessi colori erano portati anche dai famosi brisighelli, mercenari romagnoli al soldo di Venezia. Questa evenienza trarrà in inganno il cronista francese le Loyal serviteur, che attribuì la valorosa resistenza dei fanti veneti nello scontro, ai fanti romagnoli8. In realtà i brisighelli facevano parte del primo colonello che si trovava in testa all’esercito a Pandino, lontani dal luogo dello scontro essi quindi non parteciparono ai combattimenti.
E’ interessante dal punto di vista araldico-militare, come la citazione delle divise bianche e rosse delle cernite del Friuli e di Padova e dei brisighelli , faccia supporre che le altre compagnie di fanteria veneziane portassero altri colori e molto probabilmente quelli dei loro capitani.
Proseguendo con la battaglia, ilcapitano Pietro dal Monte per controbattere all’artiglieria francese, richiese l’intervento dei cannoni veneziani, questi erano situati al centro della colonna dell’esercito in marcia verso Pandino, così prima che arrivassero in campo, le cernite assieme ai fanti di Saccoccio da Spoleto, stanchi di far da bersaglio, mossero animosamente contro le artiglierie nemiche9. A scapito delle molte perdite i veneti presero i cannoni ingaggiando un combattimento con un grosso contingente di fanti guasconi che proteggeva l’artiglieria. Mentre la cavalleria dell’avanguardia francese, guidata da Charles d’Amboise signore di Chaumont, il signore de la Palisse e da Gian Giacomo Trivulzio, maresciallo di Francia e capitano degli uomini d’arme milanesi attaccava i fanti veneziani sul fianco10.
Proprio in tale frangente giungeva Bartolomeo d’Alviano, egli arrivava da Pandino dove il Pitigliano al colloquio con i principali comandanti, aveva dato l’ordine di non impegnarsi in battaglia e di ritirarsi, e visti i suoi fanti a mal partito contro i francesi decise, nonostante gli ordini, di intervenire. Perciò attaccò con i suoi uomini d’arme la cavalleria francese e la costrinse a ritirarsi in disordine, mentre anche Pietro del Monte intervenuto con i suoi fanti sconfiggeva dapprima i guasconi e poi un contingente di 800 svizzeri sopraggiunto in aiuto dei francesi 11.
Intanto ecco arrivare il grosso dell’esercito francese con lo stesso re Luigi a dirigere le operazioni. Il re inviò all’attacco 500 uomini d’arme della sua guardia (chiamati dal cronista Sigismondo dei Conti cavalieri dorati per le loro sopravvesti decorate d’oro), assieme a fanti scelti francesi e altri svizzeri12.
Nello stesso momento dalla parte veneziana giunse in aiuto il terzo colonello comandato da Antonio dei Pio da Carpi, forte di 360 uomini d’arme e oltre 5.000 fanti, di cui quasi la metà erano ordinanze di Brescia e Treviso e il resto provisionati di Citolo da Perugia e fanti corsi, mentre l’altra metà dell’esercito veneto rimaneva inoperosa presso Pandino.
Ma di questi rinforzi solamente Citolo da Perugia con i suoi 800 fanti raggiunsero i combattimenti, tutto il resto, si diede alla fuga, bersagliato dall’artiglieria francese e attaccato dai cavalieri del Trivulzio e del Chaumont, che dopo lo scontro sfavorevole con il d’Alviano si erano riorganizzati. Secondo gli studiosi i primi a fuggire senza nemmeno combattere, furono le ordinanze bresciane seguite poi dagli altri fanti13. Ma i cavalieri non furono da meno, i nobili capitani Giovan Francesco Gambara e Aloisio Avogadro, ancora bresciani, abbandonarono l’esercito e passarono ai francesi, seguiti da Giacomo Secco di Caravaggio e Soncino Benzone cremasco. Pio da Carpi fuggì pure lui, ma secondo alcuni studiosi egli era rimasto a Pandino assieme al Pitigliano14.
Senza altri aiuti il quarto colonello, a causa la preponderanza degli avversari, fu circondato, molte cronache ricordano pure l’arrivo di un forte temporale che rese impraticabile il terreno di battaglia.
Secondo i calcoli del Pieri in quest’ultima fase rimasero a lottare 4.000 veneziani contro 3.000 svizzeri, 2/3.000 guasconi e 1.000 uomini d’arme francesi15. Le truppe della repubblica resistettero eroicamente ma furono massacrate, a riguardo i cronisti dell’epoca usavano spesso il termine “fatti a pezzi”, sembra comunque che il re di Francia avesse ordinato di non fare prigionieri16.
Bartolomeo d’Alviano ferito al volto e rimasto nella mischia assieme ad un compagno, venne fatto prigioniero, mentre la sua cavalleria si salvò con poche perdite. I fanti invece rimasero sul campo ma, secondo i cronisti italiani, portandosi dietro molti nemici. Tra i capitani più famosi morirono, Pietro dal Monte con 800 dei suoi fanti, Saccoccio da Spoleto assieme a 700 dei suoi, poi il Turchetto, il Sassetta e il Granchio. Mentre Citolo da Perugia, ferito, venne fatto prigioniero.
Non tutti i capitani morirono, si salvarono Ranieri della Sassetta che dai documenti risulta il fratello di Giacomo della Sassetta ma non è chiaro chi dei due comandasse le fanterie, Cola Moro che però secondo il Sanuto e lo Champier non si trovava alla Ghiaradadda e il Gregheto 17.
Le fonti filo francesi riportano un numero di 14.000 morti tra i nemici. Mentre gli studiosi moderni quantificano in 5/6.000 le perdite veneziane e in alcune migliaia quelle francesi18.
Veniamo all’analisi della bandiera della figura1.
Questa non presenta alcuno stemma tale da farla identificare come appartenente a uno dei capitani o personaggi in vista.
La doppia fascia e il leone di San Marco dorati sono gli stessi che vediamo anche sulla bandiera di del Monte, però dipinti con un colore più scadente e probabilmente meno costoso che col tempo è virato in arancio. Interessante è il motto in latino “Dispersit dedit pauperibus” che significa “disperse e distribuì ai poveri” intendendo il generoso, l’animo nobile che dà senza avere nulla in cambio a coloro che non hanno niente. Il colore bianco del campo significa purezza, innocenza e simboleggia l’immagine della Madonna.
I capitani che potrebbero aver posseduto questa bandiera sono quelli che morirono sul campo, quindi il Turchetto e il Saccoccio che avevano più di 500 fanti alle loro dipendenze. All’epoca, infatti con il termine bandiera o insegna veniva comunemente chiamata una formazione di fanteria che nel numero poteva variare dai 300 ai 500 o più uomini. Anche il Granchio, con le sue 1.500 ordinanze friulane, può essere preso in considerazione, non però il Gregheto che riuscì a salvarsi proprio perché la sue cernite padovane fuggirono, “mal menate dai francesi”, come lo ricorda il Sanuto 19.
Forse un piccolo aiuto per identificare il vessillo può venire dalle sue dimensioni. Descritto nel Schweitzer Fahnenbuch per primo, forse non a caso, è leggermente più grande di quello di Pietro dal Monte, di 6 e 9 centimetri in più. È improbabile, a mio avviso, che un subordinato abbia sventolato una bandiera più grande di quella del suo comandante, considerando che Pietro dal Monte Santa Maria era anche capitano generale di tutte la fanterie venete.
Le fanterie italiane del periodo non possedevano molte bandiere a differenza di quelle d’oltralpe, l’uso dei vessilli in Italia era ancora prerogativa della cavalleria con i suoi stendardi. Quindi è probabile che solamente le formazioni di fanteria più importanti portassero la propria bandiera.
Tra i cronisti italiani che raccontarono la battaglia solamente il Giustiniano accenna alle insegne perse dai veneziani, senza però dire quante e quali fossero, mentre da parte avversa il barone de Zur-Lauben nella “Histoire militaire des suisse” cita due capitani svizzeri che conquistarono due bandiere ai nemici. Essi erano Jost Thoerig e Nicolas Schay del cantone di Appenzell che comandavano un’insegna di 400 fanti e certamente facevano parte dell’elite dell’esercito francese che diede il colpo di grazia alla resistenza dei fanti veneziani, facendoli a pezzi. È chiaro che le bandiere citate dal Zur-Lauben sono le stesse conservate al museo di Appenzell delle quali stiamo trattando.
Ritornando alla bandiera e ipotizzando che sia stata portata dalle cernite, ad esempio quelle friulane rimaste sul campo, bisogna ricordare che esse appartenevano al governatore Bartolomeo d’Alviano, il quale le aveva arruolate per conto della repubblica, che a sua volta si curava di corrisponderne le paghe. Le ordinanze indossavano i colori del governatore e certamente la Serenissima le aveva dotate di vessilli segnati con il leone di San Marco, posizionato sul cantone superiore del drappo, come si vede su queste due bandiere. Al centro avrebbero potuto portare il simbolo della comunità di appartenenza o, come si usava all’epoca, immagini sacre. Per esempio le cernite padovane possono aver abbinato al leone l’immagine di Sant’Antonio protettore della città.
I vessilli recanti un motto nel ‘500 erano molto in uso, come in questa bandiera della figura 1 che riporta un motto religioso, che purtroppo non chiarisce l’appartenenza.
Infine i tre colori: rosso, azzurro e bianco sulle frange del bordo ricordano, tranne che per l’azzurro, i colori di Bartolomeo d’Alviano così come nella bandiera di dal Monte che, fatta eccezione per il colore bianco, troviamo il giallo e l’azzurro che sono le tinte principali dello stemma Bourbon-del Monte.
1 Joseph-Anton Häfliger, Heraldik in der Pharmazie, dans A.H.S. 1931 p. 150.
2 G. Andrea Prato, Storia di Milano, in Arch. stor. ital. III° 1842, p.275.
3 M. Sanudo, I Diarii, LI, pp. 461, 609, 614; F. Guicciardini, Opere inedite, Firenze 1863, p.99.
4 A. Lenci, Agnadello: la battaglia, in L’Europa e la Serenissima: la svolta del 1509 nel V centenario della battaglia di Agnadello, Venezia 2011, p. 97; P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Einaudi 1952, p. 464; M. Sanuto, I Diarii, Venezia 1879-1903, VIII coll. 150-152; S. Champier, Le Triumphe du tres chrestien Roy de France Loys XII, Roma 1977, pp. 57-71; Collection universelle des Mémoires particuliers relatif a l’histoire de France, Les Mémoires du Marechal de Fleuranges, Paris 1786, tomo XVI, pp. 43-46; altri saggi sulla battaglia: M. Meschini, La battaglia di Agnadello, Ghiaradadda, 14 maggio 1509, Bergamo 2009; Centro Studi Storici della Geradadda, La rotta di Ghiaradadda : Agnadello, 14 maggio 1509 : studi, testi e contributi per una storia della battaglia di Agnadello, Treviglio 2009.
5 M. Sanuto, cit. VIII col. 149-152.
6 L. da Porto, Lettere storiche di Luigi da Porto vicentino dall’anno 1509 al 1528, Firenze 1857, p. 55.
7 L. da Porto, cit. pp. 32, 44, 55; L. Amaseo, Diari udinesi dall’anno 1508 al 1541, Venezia 1884, pp. 60 e 63.
8 La rotta di Ghiaradadda , cit, p. 170; Loyal serviteur, Histoire du gentil seigneur de Bayart, Paris 1910., pp. 68-69.
9 L. da Porto, cit. p.55; La rotta di Ghiaradadda, cit. p. 158; P. Pieri, cit. pp. 460-461; M. Sanuto, cit. XVI, col. 238.
10 G. del Prato, Storia di Milano, in Arch. stor. ital. III° 1842, pp. 273-274; La rotta di Ghiaradadda, cit.p. 157; A. Lenci, cit. p.106.
11 L. da Porto, cit. p.56; M. Andrea Mocenico, La guerra di Cambrai fatta a’ tempi nostri in Italia, Venezia 1562, pp. 13-13v; La rotta di Ghiaradadda, cit. p. 159; A. Lenci, cit. p.106-107; P. Pieri, cit. p. 461.
12 S. dei Conti da Foligno, Le storie de suoi tempi, Firenze 1883, p. 389; M. Meschini, cit. p. 80; La rotta di Ghiaradadda, cit. ibid; P. Pieri, cit. p. 462.
13 P. Pieri, cit. p. 462; La rotta di Ghiaradadda, cit. pp. 107-109; M. Sanuto, cit. VIII coll. 250 e 288; M. Andrea Mocenico, cit. p.13.
14 L. da Porto, cit. pp. 59 e 60; S. dei Conti da Foligno, cit. p.389; G. del Prato, cit. p. 276; M. Sanuto, cit. XVI, col. 239.
15 P. Pieri, cit. p. 463.
16 A. Desjardins, Négotiations diplomatiques de la France avec la Toscane, Paris 1861, tome II, p. 326; P. Pieri, cit. ibid; A. Grumello, Cronaca pavese dal 1467 al 1529, Milano 1856, pp. 112-113.
17 P. Bembo, Historia vinitiana, Venezia 1552, libro XII, p. 109; P. Giustiniano, Historie veneziane, Venezia 1571, p.189; A. Lenci, cit. p.102.
18 A. Lenci, cit. p.110.
19 M. Sanuto, cit. VIII coll. 256.
1 Der Weiß Kunig, Battaglia di Gradisca, Vienna, Nationalbibliothek.
1 G. Cappelletti, Storia della repubblica di Venezia, vol. II°, Venezia 1850, p.175; B. Giustinian, Historie cronologiche dell’origine degli ordini militari, parte I, Venezia 1692, p. 127.
2 G. Aldrighetti, cit. pp. 99, 106 e 107.
1 Archivio di stato di Firenze, Blasoni delle famiglie toscane descritte nella Raccolta Ceramelli Papiani, (fasc.941); M. Popoff, Toscane, Paris 2009, p.24; Biblioteca estense Universitaria, Bibl. Digitale, Insegne Araldiche: Dal monte Santa Maria, ; P. Litta, cit. tav. 1.
2 G. Aldrighetti, L’araldica e il leone di San Marco, Venezia 2002, pp. 48.53.
3 M. Predonzani, Anghiari 29 giugno 1440, Il Cerchio, Rimini, 2010, p.179.
4 G. Aldrighetti, cit. pp. 26, 29 e 43.
1 M. Madeleine Fontaine, Le condottiere Pietro del Monte, Genève-Paris 1991.
2 G. Battista Crollalanza, Dizionario Araldico. 1886-1890, t. II; P. Litta, cit. tav.1; F. Sansovino, cit. p. 403.
1 F. Sansovino, Origine e fatti delle famiglie illustri d’Italia, Venezia 1670, vol.I°, p. 405; P. Litta, Famiglie celebri d’Italia, 1843, vol. VIII°, tav. V.
2 F. Sansovino, cit. ibid.
3 F. Sansovino, cit. ibid.
1 A. Bruckner, Schweizer Fahnenbuch, San Gallo, 1942, p.172. Le due bandiere si trovano sotto la dicitura Agnadello 1510, un errore in riferimento alla data.
2Una cronaca napoletana figurata del Quattrocento / edita con commento da Riccardo Filangieri, Napoli 1956, p. 258; Schweizer Fahnenbuch, cit. p. 148.
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