La battaglia di Sommo o Cà del Secco presso Cremona 1427
Nel 1427 si svolse nella località di Sommo, a pochi chilometri da Cremona, una grande battaglia che, a detta dei cronisti coevi, vide scontrarsi tra i due eserciti contendenti circa 70.000 uomini.
A riguardo Giovanni Simonetta, cancelliere e storico del Duca Francesco Sforza di cui scrisse la biografia, dice: “.. non fu nell’età de nostri antichi tanta copia d’huomini quanta era in quegli due eserciti, conciosia che tra l’una, e l’altra parte in si brieve spazio erano ragunati settanta migliaia d’huomini”.mentre Scipione Ammirato puntualizza dicendo che:” tutti i più famosi capitani che allora c’erano in Italia si trovassero in quel tempo in quella guerra occupati”(nota 1). Questa battaglia precedette di poco quella più famosa di Maclodio e fu particolare perché, sebbene procurò molti morti (specialmente gente inutile), essa finì con un nulla di fatto.
Antefatti alla battaglia
Nel 1424 il Duca di Milano Filippo Maria Visconti, da poco rientrato in possesso di gran parte dei territori appartenuti al padre Gian Galeazzo, aveva esteso le sue mire alla Romagna scontrandosi con la Repubblica di Firenze, che per difendere i propri interessi nella regione intervenne militarmente contro i milanesi. Però dopo alcuni rovesci militari, i fiorentini si videro costretti a chiedere aiuto a Venezia, la quale si adoperò organizzando una Lega a cui aderirono, oltre le due repubbliche, anche il Ducato di Savoia e le signorie di Mantova e Ferrara. La guerra si spostò nell’Italia settentrionale dove l’esercito della Lega, comandato da Francesco da Bussone detto il Carmagnola, che da poco aveva abbandonato il Duca per mettersi al servizio di Venezia, attaccò la città di Brescia appartenente al Visconti. Dopo un lungo assedio la città venne conquistata assieme a vari territori situati sulla sponda orientale del lago di Garda (nota 2).
Seguirono varie trattative di pace senza esito, alla fine delle quali i milanesi, per mezzo di una flotta lungo il Po, riuscirono ad occupare Torricella nel Parmigiano e poco tempo dopo, ad opera del Piccinino, l’8 maggio 1427 presero Casalmaggiore, importante avamposto veneziano nel Cremonese (nota 3). A seguito di questi eventi il Carmagnola decise di attaccare i territori bresciani che si estendevano a sud, quindi uscì con l’esercito da Brescia e vi si diresse, mentre la flotta veneziana molestava le località viscontee sul Po.
Andrea Navagero storico veneziano che scrisse all’inizio del ‘500, dice che i veneziani partirono da Brescia con 4.000 cavalli e 6.000 pedoni, i quali durante il viaggio accrebbero di numero (nota 4). Guerniero Berni nella cronaca di Gubbio scrive che il Carmagnola: il primo giorno andò a Calcinare (nota 5), dove per molti giorni aspettò il Signore di Mantova, Niccolò da Tolentino, e molt’altra gente della lega (nota 6).
Flavio Biondo segretario di Papa Eugenio IV dice che Francesco da Bussone arrivò a Montechiaro (nota 7) con 14.000 cavalli e 6.000 fanti.
In seguito il condottiero di Venezia partì per andare a Gottolengo dove successe un fatto d’armi nel giorno dell’Ascensione. Questo luogo era presidiato da molte genti del duca capitanate da Guido Torello, Cristoforo da Lavello e Niccolò Gueriero, i quali attaccarono di sorpresa una parte dell’esercito collegato. La giornata era caldissima e secondo alcuni cronisti contribuì alla morte di molti uomini, tra gli altri morirono Messer Nanni degli Strozzi capitano del marchese di Ferrara e Galizio, capitano dei fiorentini (nota 8). I soldati della lega infine riuscirono a respingere i nemici ma perdendo, secondo il Biondo, 1.500 cavalli (nota 9). Il Carmagnola visto che Gottolengo come altri luoghi fortificati del Bresciano erano ben guarniti decise di trasferire le operazioni militari nel territorio di Cremona e attraversato l’Oglio prese con le armi o per dedizione molte località del Cremonese, tra le quali Robecco, Castelvisconti, Bordolano, Isola Dovarese, San Giovanni in Croce (nota 10), Vidiceto e Castelletto. Nel frattempo si erano già uniti ai collegati le forze di Bernardino degli Ubaldini e di Giovanni da Camerino (nota 11), mentre la flotta veneziana forte di 36 navi, sotto gli ordini di Francesco Bembo da Brescello navigando sul Po arrivò a Casalmaggiore, dove si scontrò il 20 maggio, con quella ducale formata da 30 navi e guidata da Pisano Eustachio. I milanesi ebbero la peggio perdendo 8 legni (nota 12), dando modo ai veneziani di tentare un attacco con i fanti delle galee, diretto contro Cremona, sventato da Cristoforo da Lavello comandante milanese della città, il 5 luglio (nota 13).
Ormai padrone della regione, il Carmagnola si avvicinò fino a tre miglia da Cremona con un esercito divenuto molto numeroso, 40.000 uomini secondo il Simonetta e altri cronisti e mise campo in un luogo chiamato Sommo. Il Visconti preoccupato di perdere anche Cremona dopo Brescia chiese aiuti militari all’imperatore Sigismondo, poi chiamato a raccolta i milanesi, organizzò un esercito e con esso si recò di persona a Cremona passando per Pizighettone. Questa sarà una delle poche volte che il Visconti partecipa ad una campagna militare, convinto e a ragione, dell’efficacia che la sua presenza arrecava alle truppe. L’esercito milanese si accostò presso la città a circa due miglia dai nemici (nota 14).
Numero degli eserciti contrapposti
Secondo la maggior parte dei cronisti i due eserciti arrivavano ad un totale di circa 70.000 uomini. Di questo avviso sono: il Simonetta, il Bilia, il Corio, l’Ammirato, il Sismondi e il Giulini, gli ultimi quattro non sono comunque coevi dei primi due e sicuramente hanno attinto le notizie da questi (nota 15). Un altro cronista, Lodovico Cavitelli che verso la fine del ‘500 scrisse gli Annali della città di Cremona, riferisce invece che entrambi i contendenti assommavano a 40.000 uomini, tuttavia prosegue elencando nel particolare le componenti e relativo numero delle truppe, che nel totale però risultano di 42.000 uomini per i veneziani e 21. 000 per i milanesi che nel totale fanno 62.000 combattenti (nota 16).
Suddividendo il numero degli effettivi dei due eserciti verifichiamo che Simonetta, Pigna, Biondo e Guerniero attribuiscono ai combattenti della Lega un numero attorno ai 40.000, senza la gente inutile (nota 17). Il Platina 37.000 senza i servi, il Redusi 32.000, il Capponi 30.000 compresi i guastatori e infine il Poggio attorno ai 20.000 (nota 18).
Notiamo che questi numeri sono molto differenti e per i milanesi lo sono ancor di più. Il Pigna e il Simonetta attribuiscono 30.000 unità al Visconti, il Biondo 33.000, il Cavitelli e il Platina 21.000 tralasciando i guastatori, il Poggio 20.000, la Storia Veneziana 18.000, l’Ammirato 17.000 senza i villici e infine il Cambi 15.000 (nota 19). Quasi tutti riferiscono di aver tralasciato nel numero i guastatori, i villici e altra gente comune. Il fiorentino Giovanni Cavalcanti, storico di quel tempo, si limita a citare tantissimi uomini e villani.
Entrando nel particolare della composizione delle truppe troviamo che nell’esercito della Lega per il Platina, cronista vissuto all’epoca della battaglia, erano presenti 18.000 cavalli, 9.000 fanti e circa 10.000 tra vivandieri, servi, contadini e marinai (nota 20). Secondo Guerniero Berni, anche lui dello stesso periodo, i veneti avevano 18.000 cavalli e “..fanti 22.000 però senza le cerne (nota 21), guastatori e bifolchi, che fa numero grandissimo” (nota 22). Il Capponi invece, dice che nell’aprile 1427 i veneti avevano 14.000 cavalieri, 10.000 fanti e circa 6.000 guastatori e altre maestranze (nota 23), mentre Flavio Biondo dice che il Carmagnola aveva 18.000 cavalli, 8.000 fanti, un’infinità di bagaglie e guastatori, 6.000 contadini di quelli che sapevano portare le armi e infine 10.000 degli uomini del Bembo cioè marinai (nota 24). Per il trevigiano Andrea Redusi i cavalieri erano 12.000, altrettanti i fanti e 8.000 le truppe di mare (nota 25). Infine il Cavitelli negli Annali riporta i dati del Platina a del Biondo; anche il veneziano Paolo Morosini riporta quelli del Biondo, ma cambia il numero dei cavalieri che arrivano a 22.000 (nota 26).
I milanesi avevano invece secondo il Platina 15.000 cavalli e 6.000 fanti, tralasciando i guastatori (nota 27), mentre la Storia Veneziana riporta 12.000 cavalli e 6.000 fanti (nota 28). L’Ammirato attribuisce ai viscontei 9.000 cavalli e 8.000 fanti senza le genti condotte dal Duca da Milano (nota 29). Il Biondo invece con precisione dice che avevano 18.000 cavalieri, 6.000 fanti e 15.000 tra cavalli e fanti portati dal Duca (nota 30).
Il fiorentino Giovanni Cambi nelle Istorie, proprio riguardo l’anno 1427 pubblica la lista completa delle genti d’arme e fanti rispettivamente dei veneziani, dei fiorentini e dei milanesi. Di seguito la sua lista:
Giente d’arme co’ Viniziani per detta Legha con chavagli 5.900
Chonte Charmignano Chap.° con 120. chav.
Signore di Mantova con chavalli 800
Luigi dal Nerino con chav….……600
Pier Gianpagholo con chav………400
Mess. Piero da Trani con chavalli 600
Lorenzo da Cotignuola con chav…600
Ghuixante da Perugia con chav….200
Conte da Chagnolo con………….210
Ghuihino Todesco con…………..188
Cafelza, e Antonello con…………220
Batista S.Giermano con…………200
Bernardo Morosini con………….150
Batista Bevilaqua con……………180
Luigi Chonte di Chastello con…..244
Bianchino da Terino con…………150
Ventura di Rovicho con…………100
Chonte Giorgio da Cremona con..450
Taddeo Marchese con……………500
Gente d’arme de’ fiorentini per detta Legha.
Marchese di Ferrara con ……….1200
Nicholò da Tolentino con………1200
Signore di Faenza con………….1000
Tagliano Frullano con……………450
Arigho della Taccha con………..400
Lancie spezzate con……………..300
Fornaino da Bibiena con ………..270
Ghalizio con……………………..180
Nicholò Forti Bracci con………..210
Lancie de’ fanti appiè con………150
Bartolomeo da Ghualdo con…….150
Fanti appiè in Lombardia con……600
Sommano chome di sopra si vede e’ Chavalli de’ Fiorentini 6000 e fanti 6000
In somma tutti Chavalli 8830 e fanti appiè 8000.
Giente del Ducha di Milano
Angniello della Perghola con cavalli…….1000
Nicholò Picholino con……………………1200
Nicholò Ghuerieri di Mariotto con….……..400
Il Conte Francesco Sforza con……………1200
Seccho da Montagniano con ………………450
Cristofano dal Angniello con ………………300
Ghuido Torello con…………………………200
Figliuolo del Signore di Luccha con……….600
Oppezino d’Elsa con ………………………200
Conte Alberigho da Zaghonara con………..300
Lancie de’ fanti appiè con………………….400
Ardicione da Charrara con…………………500
Sommano in tutto Chavagli 8550
Fanti appiè e Balestrieri 8000 (nota 31)
Colpisce vedere nell’elenco il Carmagnola Capitano Generale con solo 120 cavalli. Caduto in disgrazia agli occhi del Duca Filippo, era fuggito dal Ducato Visconteo nel febbraio 1425 con pochi uomini, lasciando in Lombardia la famiglia e tutte le proprietà. Arrivato a Venezia offrì i suoi servigi alla Repubblica che dopo settimane di contrattazioni accettò offrendogli una condotta di 300 lance (nota 32).
Tra le forze milanesi troviamo con lo stesso numero di cavalli il Piccinino e lo Sforza, uno dei pochi casi in cui bracceschi e sforzeschi combatterono assieme. In campo avverso invece appare Lorenzo Attendolo cugino di Francesco Sforza.
In queste liste il Cambi finisce col riferire somme totali errate di tutte tre le liste.
Un’altra lista riguardanrte però solo le forze della Lega e datata 1427 si trova nel Chronicon Tarvisinum di Andrea Redusi da Quero.
Il cronista trevigiano attribuisce ai collegati 15.000 cavalli e altrettanti fanti e poi prosegue con i nomi dei condottieri di uomini d’arme e fanti:
Franciscus dictus Carmignola de Vicecomitibus Comes Castri-Novi
Francisco de Gonzaga Domino Mantuae,
Janpaulo de Ursinis
Ursino de Ursinis
Nicolao de Tolentino
Comite Laurentio de Tendolis de Cudignola
Petro de Tranis Milite
Johanne Anglico Milite cum 100 Arceriis Anglicis
Brachio de Romagno de Feltro
Johanne Domoni Marini Neapolitano
Falza de Semeria e Antonello de Manfredonia fratribus juratis
Abbate de Petra-Mala
Aloysio del Verme
Guidone Antonio de Manfredis Domino Faventiae
Taliano Furlano
Fornaino
Inoltre elenca altri condottieri minori:
Scaramuza de Papia, Piardo de Bassano, Carnario de Pergamo, Petrucio de Calabria, Paulo de Venetiis e altri minori condottieri di fanti (nota 33).
In questa lista il Carmagnola viene citato come Francesco detto Carmagnola dei Visconti, conte di Castelnuovo, titoli a lui conferiti da Filippo Maria quando oltre a esser nominato Conte gli venne concesso nel 1414 il diritto di usare lo stemma ducale e il cognome Visconti (nota 34). Concessioni che il condottiero piemontese manterrà anche in esilio.
È pure interessante notare la presenza tra i capitani di un certo Giovanni, proveniente dall’Inghilterra comandante di 100 arceri a cavallo che nel nome e nell’armamento dei suoi uomini fa pensare ad un discendente di Giovanni l’Acuto morto nel 1394. Forse un suo ex famiglio o compagno, non sicuramente il figlio che si chiamava pure lui Giovanni ma che nel 1427 si era ormai da più di venti anni stabilito in Inghilterra (nota 35).
L’ultima lista pubblicata nel Chronicon Eugubinum, dell’autore Guerniero Berni vissuto nello stesso periodo, assegna all’esercito della Lega 18.000 cavalli, 22.000 fanti e un grandissimo numero di cerne, guastatori e bifolchi. Inoltre elenca pure i nomi di 13 signori e capitani che portavano stendardi accanto alle bandiere del Capitano Generale e quelle ufficiali dell’esercito.
Il Berni dice:
Qui si sottoscriveranno i nomi di tutti quelli, che in quello esercito portavano Stendardi, che sono questi:
Il Conte Carmignola tre Stendardi, il Biscione, Stendardo degli Scaglioni, ed un Stendardo a quartieri; la bandiera di san Marco, un’altra Bandiera della Lega dove era San Marco, il Giglio e la Croce Bianca del Duca di Savoia.
Poi di seguito i 13 possessori degli stendardi:
Il Signor di Mantova
Il Signor di Faenza
Il Signor Giovanni da Camerino
Lo Stendardo del Marchese di Ferrara
Il magnifico Berardino de i Ubaldini
Niccolò da Tolentini
Pier Gian-Paolo Orsini
Il Signor Orsino Orsini
Il Signor Lorenzo da Codignola
Messer Pietro da Trani
Il Conte Aloisio dal Verme
Taddeo Marchese
Talvino Frolano
Segue un gran numero di condottieri, di 200, 150 e 50 lance:
Il Conte Giorgio da Crema, Lodovico Michelotti, Lionello da Perugia, Raniere del Frigio, Bianchino da Feltro, Giovanni di Messer Marino, Petrolino dal Verme, Niccolò Fortebraccio, Fornaino da Bibienna, Rinaldo da Provenza, Bartolomeo da Gualdo, Riccio da Viterbo, Bernardo Morosini, Antonello da Siena, Guerriero da Marsciano e molti altri (nota 36).
Questo elenco diviene importante per lo studio dell’araldica delle compagnie di ventura, in quanto se ne deduce che all’epoca oltre alle bandiere ufficiali, cioè quelle di nazione e del comandante in capo, si inalberavano anche gli stendardi dei capitani o signori.
Confrontando i loro nomi con quelli del Cambi potremmo ipotizzare che questo fatto era prerogativa dei comandanti delle compagnie più numerose ed importanti che, come in questo caso, racchiudevano compagnie di 1.200 cavalieri come quelle del Marchese di Ferrara e del Tolentino, fino a compagnie più piccole come quella di Pier Gianpaolo Orsini forte di soli 400 cavalli.
Anche il Cavalcanti ricorda l’uso delle tante bandiere proprio riguardo questa battaglia.
Narrando dell’avvicinarsi dell’esercito visconteo al campo di Sommo, in maniera forse un po’ esagerata ma molto suggestiva, racconta la vista dei milanesi: “L’aria, pe’tanti loro gonfaloni, pareva alle viste degli uomini fusse cangiante; conciossia cosa che le tante insegne erano di tanti diversi colori, che l’aria e la terra, con tutte le cose, parevano cangianti”(nota 37).
Luogo dello scontro
I cronisti che scrissero di più riguardo la battaglia e a mio avviso anche con più precisione, sono il Simonetta e il Cavalcanti, i quali indicano il luogo dello scontro come: alla cà de Secca, il primo e alla Casa del Secco il secondo (nota 38). Il Cavalcanti precisa che il campo dei collegati era situato a Somma odierno Sommo con Porto, frazione del comune di San Daniele Po e che la casa del Secco era più avanti verso Cremona, dove c’era una ampissima e profonda fossa (nota 39). Il Simonetta dice che il Carmagnola, come era sua abitudine, aveva circondato il campo con dei carri a mò di muro dal lato del nemico e non lontano dai carri c’era una fossa molto difficile da passare. Ai bordi di questa si schierarono i collegati e lì si svolse la parte iniziale dello scontro.
Gli altri storici grosso modo concordano. Il Platina, Poggio Bracciolini e il Cavitelli chiamano il luogo Summum e il Redusi Sumam Villam, mentre il Guerniero lo chiama Cà del Secco e l’Ammirato Cà de Secchi (nota 40). I rimanenti si limitano a riferire che il fatto si svolse presso Cremona, vicino al Po.
Antonio Battistella che alla fine dell’800 scrisse una biografia sul Conte di Carmagnola, identifica il luogo in Casalsigone, ma sbagliando. Infatti riferendo che la maggior parte dei cronisti indicano Casalsecco e ammettendo che non gli è stato possibile trovare il posto in nessuna carta , nè dizionario corografico, suppone che lo stesso corrisponda a Casalsigone, otto chilometri circa a nord di Cremona e molto lontano dal Po (nota 41).
Cà de Secca, del Secco o dei Secchi, di questo luogo effettivamente non esiste ricordo né nella Biblioteca Civica di Cremona né nel ricordo degli attuali abitanti di Sommo. Non appare in nessuna carta topografica del contado di Cremona, nemmeno nella più antica datata 1579 dove invece appare Sommo e neppure nel testo di Angelo Grandi: Descrizione dello stato fisico, politico, statistico, storico, biografico della provincia e diocesi di Cremona, del 1858 dove in Appendice il Grandi elenca tutti i casali e cascine del contado dell’epoca.
Probabilmente, Cà Secca o Cascina Secca situata ai bordi del paese di Sommo, faceva parte della miriade di cascine che tuttora circondano la località e nel 1400, all’epoca della battaglia, forse era già disabitata. Lo stesso nome “secca” indica arido o abbandonato e di conseguenza la facile dimenticanza del luogo negli anni.
La battaglia
La mattina del 12 luglio (nota 42) l’esercito milanese, benché inferiore di numero ma animato dalla presenza del Duca, attaccò il campo collegato. Il comandante in capo era Carlo Malatesta signore di Pesaro, da poco nominato capitano generale dal Duca su consiglio di Francesco Sforza (nota 43). Carlo, generale Capitano duchesco; e tutto di maglie aveva coperto il cavallo, e poi d’un drappo tutto a oro addobbato, quale a gusto fu mai più adorno (not 44).
Il Cavalcanti racconta l’avvicinamento delle forze milanesi e, da buon fiorentino ne esagera il numero definendolo numerosissimo, anche perchè ingrossato da una moltitudine di villani o rustici (nota 45).
Quasi tutti i cronisti concordano nel dire che l’accampamento dei veneziani e collegati era protetto da una cinta di carri come usava il Carmagnola, il quale però questa volta fece uscire parte delle genti e li fece attestare dietro ad una fossa che si trovava più avanti, verso il nemico.
Tutti gli storici definiscono questa fossa difficile da passare. Il Cavalcanti la spiega così: una stretta di passo, che era afforzata da una ampissima e profonda fossa, per il Platina essa è fossa fatìs profunda, ponte conjuncta e dello stesso avviso il Biglia, mentre per l’Ammirato essa era: per altri tempi fatta assai difficile da passare e dal Carmagnola fortificata (nota 46). Il Simonetta è il più preciso e dice: Era consuetudine di questo capitano sempre cingere i campi di carri in forma di mura, dalla parte dove haveva a venire il nemico. Ma in questo luogo non lontano dai carri era una fossa per altri tempi fatta difficile a passare, questa tanto inalzò con gli argini, che non si poteva passare, se non per certe parti basse. Tra questa fossa e i carri era il piano espedito (nota 47).
Questa fossa sarà importante non per l’esito della battaglia ma per i fatti che vi successero, controversi nei racconti dei cronisti.
Arrivati sul posto i milanesi rimasero nel dubbio se conveniva passarla oppure no. Secondo il Simonetta, i capitani viscontei Agnolo della Pergola e Guido Torelli, più vecchi ed esperti consigliarono di attendere che fossero i nemici i primi ad attraversare l’ostacolo, ma gli altri condottieri, desiderosi di venire alle mani, si misero a passare, primo tra tutti Francesco Sforza seguito da Cristoforo da Lavello e da Ardizzone da Carrara (nota 48). Dello stesso avviso del Simonetta sono i cronisti Billia, Corio, Giulini e Ammirato mentre il Platina conferma che i milanesi passano ma non elenca i nomi dei capitani presenti.
Giovanni Cavalcanti invece presenta una versione differente, intanto spiega che “e quivi, lungo quel burrato, pose assai gente (il Carmagnola) a contendere che i nemici non passassino,.. e a quel luogo era assai vicino un bosco spinoso e salvatico, il quale in su gli argini di quella strada si stendeva; nel quale otto mila fanti, con balestra, lance ed altre armadure, il franco Carmagnola vi mise” (nota 49). Giunti i milanesi, Agnolo della Pergola per primo si mise ad attaccare il fosso ma visto che quelli della lega colle balestre e con le giuste lance molto danno arrecavano ai soldati ordinò che i suoi contadini rimediassero di persona al guastamento de’ suoi. Egli infatti oltre la sua compagnia aveva come seguito, come riferisce sempre il Cavalcanti già dal 1426, un infinito numero di villani armati di scuri e di roncigli che usava per farsi aprire la via in mezzo a boschi selvatici o per farsi costruire ponti per attraversare fiumi (nota 50). Velocemente questi contadini armati di pale, zappe e vanghe furono spinti dai fanti di Angelo sulla sponda del fosso con l’ordine di ricoprirlo. Gli sventurati si ritrovarono con i nemici di fronte che li colpivano con verrettoni e lance e dietro con gli “amici”che li spronavano percuotendoli alle spalle, trovando così da una parte e dall’altra ferite e morte. Agnolo faceva torre i morti; e non avendo egli riguardo de’ feriti, ma ciascuno faceva gittare nel fosso; e ricoprire subito di terra. E vi era tal padre che ricopriva il figliuolo; e tal figliuolo che ricopriva il padre; e così il zio il nipote, ed il nipote il zio, e l’un fratello l’altro; e così ogni cosa era crudeltà e omicidio. Così il Cavalcanti dipinge quello scempio che in poco tempo divenne un massacro (vedi fig.1). La crudeltà d’Agnolo fece tanti villani in quel fosso gittare, che con la riva del fosso tutto il pareggiò; e co’ cavalli sopra a que’ corpi, l’umano posticcio calpestando; passò, e sopra le nostre genti cominciò forte a battagliare (nota 51).
In ogni caso, tra la fossa e i carri in aperta campagna cominciò una grande e mortale zuffa tra i due eserciti e Antonello da Milano, valoroso capo squadra dei viscontei, con i suoi dall’ala sinistra attaccò i nemici al fianco e non avendo trovato grande resistenza entrò negli alloggiamenti della Lega mettendoli in confusione. Qui trovando solo gente inutile e disarmata a guardia dei padiglioni in parte uccide, in parte fa prigionieri e il resto mette in fuga. Nel frattempo il grosso dei milanesi avevano spinto quelli della Lega fino ai carri dove il Carmagnola fu gettato da cavallo e subito attorno alla sua persona crebbe un’aspra lotta tra i nemici che cercavano di prenderlo e i suoi che lo difendevano. Alla fine i suoi famigli riuscirono a farlo montare su di un altro cavallo perdendo però molti di loro che furono fatti prigionieri (nota 52).
Si sparse subito la voce che il Carmagnola era stato preso e saccomanni e galuppi (not 53) di parte milanese seguendo la via fatta da Antonello entrarono nel campo dei collegati e si misero a saccheggiare tutto, specialmente gli alloggiamenti del signore di Mantova. Udito questo, il Carmagnola mandò subito soccorso al campo e i saccheggiatori, che erano senza alcun capo, furono messi in fuga. Pure Antonello da Milano rimasto senza aiuto da parte dei suoi e attaccato da molti nemici dovette ritirarsi per la via da dove era venuto, portandosi dietro alcuni prigionieri. Circa 500 dei ducheschi furono presi attorno agli alloggiamenti (nota 54).
Durò questa battaglia dal mattino alla sera e ad un certo punto tanta era la polvere, causata dai combattenti, che non si distinguevano gli amici dai nemici e ci si riconosceva a voce. Fu pertanto fatto suonare le trombe a raccolta e ciascuno dei contendenti ritornò ai propri alloggi (nota 55).
Di quel giorno il Carmagnola confesserà che più volte sarebbe stato fatto prigioniero se fosse stato riconosciuto e la stessa cosa avvenne allo Sforza e al Piccinino in mezzo a quel fumo.
Ancora il Cavalcanti darà una versione diversa riguardo l’epilogo del combattimento. Intanto racconta che la giornata era caldissima e tanta la sete dei combattenti, che almeno dalla parte milanese veniva rinfrescata dalle donne di Cremona che si prodigavano a portare acqua dove potevano. Il gran caldo era anche cagione del rapido corrompersi dei morti, fenomeno che il cronista fiorentino racconta cosi: .. e molti uomini dell’una parte e dell’altra vi morivano, e non meno di disagii che di busse. Il fiato del sangue, col puzzo delle tante carogne , fu cagione di molti morti, perocchè i cavalli sbudellati, e le interiora, mescolatamente, degli uomini e delle bestie, pel gran caldo, erano subitamente corrotte (nota 56).
Poi il Cavalcanti continua affermando che la conclusione dello scontro non fu determinata dalla polvere ma da quegli 8.000 fanti della Lega nascosti dal Conte Carmagnola nel bosco spinoso che si trovava vicino alla fossa. Questi con lance e balestre colpivano ai fianchi i cavalieri milanesi che non riuscivano a sfondare. Allora: non potendo i nostri nemici seguire le nostre genti per la difesa degl’imboscati fanti, uscirono dal loro esercito circa di quattro cento cavalli, e diedero volta di grande spazio, e assaltarono dal lato de’terghi delle nostre genti, e quivi predarono il carriaggio de’ nostri uomini, il quale da tutto il campo era abbandonato (nota 57). È evidente che quest’ultima parte del racconto si riferisce alla sortita di Antonello da Milano. Prosegue lo storico dicendo che quei 400 ritornando con ricchissima preda furono attaccati dai collegati che li vinsero facendo prigioni, di uomini e cavalli, riacquistando bottino e carriaggio.
Così il fiorentino conclude il racconto della battaglia: Ed in questa così fatta battaglia si riposò nei nostri la vittoria di quel dì, della quale gl’imboscati fanti ne furono cagione: e così ciascuno esercito alle stanze ritornarono; e niuno vi fu quel dì che non assaggiasse le busse dell’altro (nota 58).
Conclusione e perdite
Tutti gli storici sono concordi nell’attribuire un risultato uguale alla conclusione della battaglia cioè un risultato pari anche se Marin Sanudo, da buon veneziano, dà la vittoria ai suoi che, sempre secondo lui, incalzarono i milanesi fin sotto le mura di Cremona (nota 59). Il Simonetta dopo aver ricordato che i milanesi persero 500 uomini presi negli alloggiamenti dice: il numero dei pregioni fu quasi del pari da ogni parte, e la stessa cosa dicono l’Ammirato e il Corio, sempre d’accordo col Simonetta(nota 60). Il Bilia e in seguito il Giulini dicono che il Carmagnola si ritirò e vittoriosamente lo Sforza ritornò dal Duca conducendo con sé 500 cavalli prigionieri (nota 61).
Riguardo le perdite in vite umane il Sanudo scrive che: ne fo morti assaissimi di una parte et l’altra, come il Navagiero nella Cronaca Veneziana: che nel fine della battaglia dopo gran numero di soldati feriti e presi e da ogni parte morti, non si potè discernere chi ne restasse superiore (nota 62). Storici più recenti confermano le forti perdite come il Cappelletti che afferma: più che una battaglia, fu un’orrenda strage, un sanguinoso macello e il Battistella: parecchi furono i morti (nota 63).
A questi si contrappone il Guerniero Berni da Gubbio che è d’altro avviso: ..e da una parte, e dall’altra non vi fu troppo guadagnato, ne perduto (nota 64). Per concludere ancora il Cavalcanti che non dà una stima precisa delle perdite, ma dice che molti morti vi furono da una parte e dall’altra (nota 65).
Con questo scontro Cremona fu salva e, lieto di questo, Filippo Maria Visconti ritornò a Milano da dove mandò Ladislao Giunigi figlio del signore di Lucca a Vercelli, per respingere un attacco delle truppe congiunte di Amedeo di Savoia e di Giangiacomo marchese del Monferrato, operazione portata a termine con successo. Il conte di Carmagnola invece, vista la difficoltà di prendere Cremona, si spostò a Casalmaggiore e susseguentemente nel bresciano, sempre seguito dai milanesi e infine a Maclodio, dove otterrà una delle sue più importanti vittorie della sua carriera.
L’Araldica della battaglia suelle bandiere
Nel capitolo “Numero degli eserciti contrapposti” abbiamo trovato che la Cronaca Eugubina elenca tutti i possessori di stendardi nell’esercito collegato. Dapprima il cronista menziona le bandiere ufficiali, quella con il leone di San Marco della Repubblica di Venezia e la bandiera della Lega, quest’ultima composta da tre emblemi: il leone di San Marco, il giglio di Firenze e la croce bianca in campo rosso del Ducato di Savoia (nota 66). Questo è un particolare modo di rappresentare su di un solo stendardo i simboli dei tre stati alleati, poichè solitamente in battaglia, ognuno inalberava il proprio vessillo.
Seguono poi le tre bandiere del Capitano Generale, il conte di Carmagnola (fig.2), una con lo stemma personale che è rappresentato dalla banda con gli scaglioni; cioè l’arme della famiglia Bussone che in araldica si legge: di rosso alla banda d’argento caricata da scaglioni (detti anche caprioli) del campo(nota 67). Le altre due sono il biscione dei Visconti e il Ducale, cioè il biscione inquartato con l’aquila imperiale, quest’ultimo stemma risale al 1395 quando Gian Galeazzo Visconti venne nominato duca di Milano dall’imperatore Venceslao di Lussemburgo che gli concesse pure di affiancare il suo stemma a quello imperiale. Questi due ultimi stendardi appartengono al Carmagnola dal 1414, quando venne aggregato dal duca Filippo Maria alla stirpe dei Visconti concedendogli di portare l’arme della propria famiglia (nota 68).Poi il Guerniero Berni elenca i 13 capitani che portano stendardi propri tra i quali nomineremo i più importanti, tuttavia accanto ai nomi non dice l’emblema rappresentato sul tessuto, molto probabilmente si trattava dell’arme di famiglia oppure, qualche volta dell’impresa personale o il cimiero. A questo proposito è interessante consultare le Cronache di Giovanni Sercambi, nelle cui illustrazioni appaiono molte bandiere usate dalle famiglie nobili alla fine del ‘300 e raffiguranti sempre lo stemma di famiglia (nota 69).
Tra i capitani più importanti troviamo Gianfrancesco Gonzaga signore di Mantova, il quale inalberava molto probabilmente lo stemma di famiglia: d’oro con le fasce di nero, abbinato al leone di Boemia (fig. 3). In araldica questo stemma si legge: inquartato al I° e al IV° di rosso al leone d’argento coronato d’oro, al II° e al III° d’oro alle tre fasce di nero. Il leone di Boemia venne concesso nel 1403 dall’imperatore Venceslao di Boemia a Francesco I° Gonzaga, padre di Gianfrancesco, quando i signori di Mantova vennero elevati al titolo di marchesi (nota 70).
Segue Taddeo d’Este marchese di Ferrara con il vessillo di famiglia: d’azzurro all’aquila d’argento con il volo abbassato, coronata, beccata e membrata d’oro (nota 71) (fig. 5).
Niccolò da Tolentino invece alza la bandiera dei nodi di Salomone che sono la sua impresa. Infatti egli apparteneva alla famiglia marchigiana dei Mauruzi o Mauruzzi (nota 72) il cui stemma era: di rosso al leone d’oro impugnante una daga d’argento sormontata da una stella d’oro, mentre il suo stendardo era d’argento seminato di nodi di Salomone al naturale, ne consegue che egli in battaglia non portava il suo stemma ma l’impresa (nota73). Ambedue questi simboli sono rappresentati nel suo monumento in S. Maria del Fiore dipinto da Andrea del Castagno, mentre la bandiera con i nodi appare nel dipinto di Paolo Uccello sulla battaglia di San Romano conservato alla National Gallery di Londra.
Un altro capitano importante e, come il Tolentino assoldato da Firenze, è Bernardino degli Ubaldini della Carda, di cui lo stemma è: di azzurro al rincontro di cervo d’oro, sormontato, tra le corna, da una stella d’oro o da un bisante d’argento alla croce di rosso (nota 74).
Di Pier Giampaolo Orsini si conosce lo stendardo che portava alla battaglia di Anghiari nel 1440, questo era tutto rosso con al centro una figura di animale (un’orsa) tra due rose d’argento, il tutto contornato da un nebuloso d’argento da cui partivano dei raggi, simili a stami che riempivano tutto il campo rosso (nota 75).
Guidantonio Manfredi signore di Faenza aveva come stemma di famiglia l’inquartato d’azzurro e d’argento ma come impresa l’ibis. Questo uccello appare come sigillo in una sua lettera indirizzata a Cosimo de Medici nel 1439 e conservata nell’Archivio di Stato di Firenze (nota 76).
Per la parte milanese invece non vengono elencati portatori di stendardi nelle cronache, ma il Cavalcanti racconta che le bandiere nell’esercito del Visconti erano numerose (nota 77). Come insegne ducali venivano portate in battaglia la bandiera del biscione e la Radia Magna o raggiante, quest’ultima era l’impresa guerresca di Filippo Maria come viene ricordata da Candido Decembrio suo segretario e biografo (nota 78).
A Sommo il capitano generale da poco nominato era Carlo Malatesta signore di Pesaro, figlio di Pandolfo II, più noto come Malatesta dei Sonetti. L’arme di questa famiglia non si differenziava di molto da quella del ramo principale dei Malatesta, ed era: d’argento a tre bande scaccate d’oro e di rosso di tre file, col capo d’Angiò (fig. 6) (nota 79). A volte i Malatesta usavano rappresentare sulle bandiere il cimiero che sormontava il loro stemma, il più usato dagli esponenti di Rimini era l’elefante, mentre per i Malatesta Sonetti era il liocorno.
Con i milanesi c’era Francesco Sforza, divenuto da qualche anno guida delle forze sforzesche, dopo la morte del padre avvenuta nel gennaio 1424. La bandiera ufficiale degli Attendolo-Sforza era l’inquartato che univa il campo di rosso alle onde d’azzurro e d’argento, sul campo rosso veniva posto l’emblema come i cotogni (emblema di famiglia) oppure le imprese personali. Si conoscono molte imprese adottate da Francesco come: i tizzoni ardenti, le piume di struzzo, la melagrana, il morso, la scopetta, l’impresa del cane sotto il pino e i semprevivi, ma tutte risalgono al periodo ducale, o almeno non ci sono prove che egli li portasse prima di divenire signore di Milano. Unica impresa antecedente sono gli anelli intrecciati, ereditati dal padre e perciò probabilmente portati sui campi rossi delle sue bandiere (nota 80) (fig.7).
Altro capitano famoso nell’esercito milanese era Niccolò Piccinino che conduceva le forze braccesche, in gran parte ereditate dopo la morte del suo maestro Braccio Fortebraccio all’Aquila nel 1424. Egli aveva ereditato anche le insegne come quella del leopardo seduto che porterà e perderà alla battaglia di Anghiari del giugno 1440 (nota 81).
Ancora ,Angelo della Pergola che secondo una biografia dedicatagli da Luigi Nicoletti nel 1899, aveva come stemma una testa di bue, tale stemma sempre secondo il biografo, viene documentato nelle Memorie di Celso Cittadini di Siena. Inoltre, dice che Angelo portava come arme anche cinque fiamme, per la sua presunta appartenenza alla famiglia Montaini che adottava questo stemma (nota 82).
Infine Cristoforo da Lavello, lucano d’origine aveva militato sotto il comando del condottiero Angelo Broglio da Lavello detto Tartaglia, del quale era imparentato, forse il nipote. Anche lui come lo Sforza e il Piccinino divenne continuatore di una corrente o scuola di mercenari, in questo caso la scuola tartagliesca. Per questo motivo si presume che a Sommo portasse lo stendardo appartenuto al Tartaglia cioè il nodo d’argento su campo rosso (fig. 8 ) (nota 83).
Considerazioni
Riguardo al bilancio conclusivo dello scontro, come abbiamo potuto notare, vi è una forte discrepanza tra il resoconto di una parte dei cronisti, circa la metà, e l’altra, che in merito dà una versione diversa.
La prima elenca solamente i prigionieri presi che complessivamente risultano pari tra i due eserciti, cioè 500 circa.
L’altra parte invece sottolinea i morti avuti da entrambe le parti e li definisce come: molti morti, assaissimi, gran numero, oppure come un’orrenda strage, un sanguinoso macello.
Comunque vari cronisti delle due parti raccontano della sortita di Antonello da Milano in campo avversario e della conseguente strage di gente inutile e disarmata. Uno di questi è il Simonetta che però nella conclusione della battaglia menziona solo i prigionieri, omettendo di ricordare i morti tra i carriaggi citati poco prima. Una dimenticanza del cancelliere e biografo del duca Sforza? Oppure non era proprio una dimenticanza piuttosto una realtà dell’epoca nella quale la gente inutile era talmente inutile che non occorreva citarla specialmente nelle perdite?
Tra tutti però spicca il Cavalcanti, unico a narrare in maniera cruda ma anche coinvolgente del massacro perpetrato dai fanti delle due parti su i contadini appartenuti ad Agnolo della Pergola. Un massacro talmente crudele che persino alcuni dei fanti fiorentini, stanchi di uccidere gente disarmata, si spostano lungo la fossa a cercare veri combattenti. Ecco il racconto: Ed alcuno de’ nostri, a cui pietà ne veniva, accennava in un luogo e dava in un altro: dove i nostri vedevano l’arme, percotevano; e dov’erano i panni, riguardavano (nota 84).
A questo punto bisogna dire che leggendo le cronache del Cavalcanti ci si imbatte spesso in fatti incresciosi, violenze o massacri perpetrati da militari su gente inerme e civili. Fatti spesso confermati da altri cronisti, che provano così l’attendibilità dello storico fiorentino, ma nel caso di Ca’ Secca egli essendo l’unico a parlarne ha forse alterato i fatti riferendo di un eccidio non successo?
Indubbiamente del luogo come abbiamo già visto non esiste più memoria, comunque è evidente che sia esistito poiché viene ricordato da molti cronisti. Oltretutto quasi tutti parlano della fossa come luogo d’inizio del combattimento, per di più indicandola come assai difficile da passare, tutti avvalorano quanto raccontato dal Simonetta, cioè che ad un certo punto lo Sforza sia passato, ma nessuno di loro spiega come alla fine la fossa sia stata superata. Forse tacendo confermavano l’idea che della gente “inutile, non valeva la pena occuparsi.
Per chiarire questo concetto basta rivolgere l’attenzione alla situazione politica e sociale del ‘400 italiano. La maggior parte delle città erano amministrate dalle signorie o dai principati che a volte arrivavano a essere tirannie autocratiche come quella dei Visconti, mentre altre località come Venezia, Firenze, Genova, Lucca, Siena conservavano la loro antica organizzazione comunale che di fatto però aveva poco di repubblicano in quanto il potere era detenuto da una oligarchia di rappresentanti dell’alta borghesia e delle famiglie ricche (nota 85).
Prendendo ad esempio Firenze vediamo che nell’elettorato di quella città erano esclusi la plebe, gli operai e i piccoli artigiani, mentre la piccola e media borghesia aveva diritto al voto, ma il suo peso politico era in proporzione insignificante. Si aveva così un elettorato composto nella stragrande maggioranza da ricchi, alcune migliaia di persone che risultavano però il 5% circa della popolazione (nota 86). Ovviamente le donne erano totalmente escluse dalla vita politica e curiosamente proprio nella città del giglio e della patria del Rinascimento, si usava praticare la schiavitù.
Si sa che questa pratica non era prerogativa solo di questa città, ma era comune in tutta Italia e in altri stati Mediterranei, come la Spagna.
Grazie alla ricerca fiscale attuata a Firenze dal catasto nel 1427, proprio l’anno della battaglia, si viene a sapere con precisione il numero degli schiavi presenti nella città, 294 donne di cui 130 in età fertile (nota 87).
Nella patria del Rinascimento, di Masaccio, Paolo Uccello, Mantegna, Brunelleschi ecc. la stragrande maggioranza delle persone era trattata da inferiore, da serva; non c’è da stupirsi quindi se una fossa veniva riempita con i corpi di questi esseri inferiori.
Il Cavalcanti conosceva benissimo questi aspetti della società dell’epoca, nel carcere delle Stinche dove rimase per circa dieci anni, dal 1429 quando venne imprigionato per debiti ai quali non poteva far fronte, scrisse le Istorie Fiorentine, nelle sue condizioni non aveva niente da perdere, forse è proprio della sua natura d’uomo e di storico raccontare i fatti così per come sono avvenuti, anche le vicende scomode al lustro dei potenti, pure quando queste sono state commesse dagli stessi fiorentini, quelle vicende omesse da altri cronisti per compiacenza del potere.
Note:
1. G.Simonetta, Historie, Venezia 1544, p. 26v; S. Ammirato, Istorie fiorentine, Torino 1853, vol.V, p. 131.
2. F. Biondo, Historie , Venezia 1547, p. 34r; G.Simonetta, cit. p. 25r.
3. F. Biondo, cit. p. 35v; A. Gamberini, Storia di Cremona, il Quattrocento, vol.6, Cremona 2008, p. 20.
4. A. Navagiero, Storia veneziana, Muratori R.I.S. XXIII, col. 1091.
5. Oggi Calcinato presso Lonato del Garda.
6. G. Berni, Chronicon Egubinum, Muratori R.I.S. XXI, col. 964.
7. Odierna Montichiari 3 chilometri a sud di Calcinato.
8. G. Berni, cit. col. 964; G. Cavalcanti, Istorie Fiorentine, vol.1, Firenze 1838, p. 212.
9. F. Biondo, cit. p. 37v.
10. Secondo il Cavalcanti, cit. pp. 219-221, il Carmagnola prese d’assalto e mise a sacco San Giovanni in Croce.
11. G. Berni, cit. col. 964.
12. F. Biondo, cit. p. 36v.
13. F. Biondo, cit. p. 36v; A. Pezzana, Storia di Parma , 1842, II, p. 286.
14. F. Biondo, cit. p. 38r; G. Simonetta, cit. 26v.
15. G. Simonetta, cit. 26v; A. de Billiis, Historia mediolanensis , Muratori R.I.S. XIX , col.100; B. Corio, Storia di Milano, vol.II,Milano 1856, p. 606; S. Ammirato, cit. p.131; S. Sismondi, Storia delle repubbliche italiane, vol. III, Milano 1851, p. 328; G. Giulini, Memorie della città e campagna di Milano, Milano 1857, vol. VI, p. 294.
16. L. Cavitelli, Annali della città di Cremona, Bologna, l968 (ristampa dell’edizione Cremona l588) p. 162.
17. G. Simonetta, cit. 26v; G. Battista Pigna, Storia dei principi d’Este, Venezia 1572, p. 561; F. Biondo, cit. p. 38r; G. Berni, cit. col. 964.
18. B. Platina, Hist. Mantuane , Muratori R.I.S. XX col. 808; Redusiis de Quero, Chronicon Tarvisinum, R.I.S. XIX col. 860; N. Capponi, Commentari, Muratori R.I.S. XVIII col. 1165; Poggio Bracciolini, Historia fiorentina, Venezia 1715, pag. 245.
19. G. B. Pigna, cit. p. 561; G. Simonetta, cit. p. 26v; F. Biondo, cit. p. 38r; L. Cavitelli, cit. p. 162; B. Platina, cit. col. 808; Poggio, cit. p.246; A. Navagiero, cit. col. 1091; S. Ammirato, cit. p. 131; G. Cambi, Istorie in Delizie degli Eruditi Toscani, 1785, tomo 20, vol.I, pag. 170.
20. B.Platina, cit. col. 808.
21. Cerne: fanti non di mestiere ma scelti nei contadi per vari fabbisogni.
22. G. Berni, cit. col. 964.
23. N.Capponi, cit. col.165.
24. F.Biondo, cit. p. 38r.
25. Redusiis, cit. col. 860.
26. P. Morosini, Historia della città di Venezia, Venezia 1637, p.421.
27. B.Platina, cit. col. 808.
28. A. Navagiero, cit. col. 1091.
29. S. Ammirato, cit. p. 131.
30. F.Biondo, cit. p. 38r.
31. G. Cambi, cit. pp. 168-170.
32. C. Rendina, I capitani di ventura , Newton & Compton ed. 1999, p. 141.
33. Redusiis, cit. col. 859.
34. Il 14 febbr. 1417 sposò Antonia Visconti, lontana parente del duca.
35. D. Balestracci, Le armi i cavalli l’oro , Ed. Laterza, 2003, pp. 229-230.
36. G. Berni, cit. col. 964-965.
37. G. Cavalcanti, cit. p. 225.
38. G.Simonetta, cit. p. 26v; G. Cavalcanti, cit. p. 222.
39. G. Cavalcanti, cit. p. 228.
40. B.Platina, cit. col. 808; Poggio, cit. p. 247; L. Cavitelli, cit. p. 162; Redusiis, cit. col. 860; G. Berni, cit. col. 965; S. Ammirato, cit. p. 131.
41. A.Battistella, Il conte di Carmagnola, Venezia 1889, pp.162-163.
42. M. Sanudo, Le vite dei Dogi 1423-1474, tomo I, Venezia 1995, p. 548; A. Battistella, cit. p.163; invece per G. Giulini, cit. p. 295 è il 13 luglio.
43. Questo Malatesta non è da confondere con il suo omonimo e più famoso Carlo signore di Rimini che è quello che venne sconfitto a Zagonara da Angelo della Pergola nel 1424.
44. G. Cavalcanti, cit. p. 230.
45. G. Cavalcanti, cit. pp. 225-226.
46. G. Cavalcanti, cit. p.228; B. Platina, cit. coll. 808; A. de Billiis, cit. coll. 100; S. Ammirato, cit. p.131.
47. G. Simonetta, cit. p. 27r.
48. G. Simonetta, cit. p. 27r.
49. G.Cavalcanti, cit. p. 228.
50. G. Cavalcanti, cit. p. 168.
51. G. Cavalcanti, cit. p. 229.
52. G.Simonetta, cit. 27v; A. de Billiis, cit. coll. 100, B. Corio, cit. p. 607; S. Ammirato, cit. p. 132.
53. Galuppo: specie di soldato o uomo vile, abbietto.
54. G. Simonetta, cit. p. 27v, A. de Billiis, cit. coll. 100; B. Corio, cit. p. 608; S. Ammirato, cit. p. 132.
55. G. Simonetta, cit. p. 28; F. Biondo, cit. p. 38v; B. Corio, cit. p. 608; G. Berni, cit. col.965; Redusiis, cit. col. 862; S. Ammirato, cit. p. 133; Poggio, cit. p. 248; B. Platina, cit. coll. 808.
56. G. Cavalcanti, cit. pp. 230-231.
57. G. Cavalcanti, cit. p. 231.
58. G. Cavalcanti, cit. p. 231.
59. M. Sanudo, cit. p. 548; Anche il Battistella copierà questa conclusione: cit. p. 163.
60. G.Simonetta, cit. pp. 27v-28r; S. Ammirato, cit. p. 132-133; B. Corio, cit. p. 608.
61. G. Giulini, cit. p. 295; A. de Billiis, cit. col. 100; A.Battistella, cit. p.163.
62. A. Navagiero, cit. col. 1092.
63. G. Cappelletti “Storia della Repubblica di Venezia”, Venezia 1850, vol.V, p. 492; A.Battistella, cit. p.163.
64. G. Berni, cit. col. 964.
65. G. Cavalcanti, cit. p.230.
66. G. Berni, cit. col. 965.
67. D. Sant’Ambrogio, Dello stemma sopravanzato nel palazzo del Broletto del conte Francesco Bussone da Carmagnola, in Archivio Storico Lombardo, 1831, p. 401.
68. C. Rendina, cit. p. 140; D. Sant’Ambrogio, cit. p. 402.
69. Archivio di Stato di Lucca, G. Sercambi, Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese, Fondo Bibl. Mss. 107.
70. C. Rendina, I capitani di ventura, Newton & Compton ed. 1999, p. 360; Militaria, storia, battaglie, armate , “Araldica” Mondadori 2006, vol.1, p.28.
71. C. Rendina, cit. p. 337; Militaria, storia, battaglie, armate , “Araldica” Mondadori 2006, vol. 2 p.318, vol.3 p. 536.
72. F. Sansovino, Della origine et de’fatti delle famiglie illustri d’Italia , Venezia 1582, p. 280.
73. L.G.Boccia, Le armature di Paolo Uccello , L’Arte , III 1970, p. 77; H.P. Horne, The Battle-piece by Paolo Uccello in the National Gallery, in “The Monthly Review”, V 1901, p. 129.
74. L.G.Boccia, Le armature di Paolo Uccello , L’Arte , III 1970, p. 79.
75. M. Predonzani, Anghiari 29 giugno 1440, la battaglia, l’iconografia, le compagnie di ventura, l’araldica, Il Cerchio ed. 2010, pp. 153-154; oppure www.stemmieimprese.it, in capitolo le bandiere della lega.
76. M. Predonzani, cit. p. 163.
77. G. Cavalcanti, cit. p. 225.
78. P. Candido Decembrio, Vita di Filippo Maria Visconti , Adelphi 1983, p. 70; M. Predonzani,cit. pp. 145-146.
79. G. Rimondini, L’Araldica malatestiana, Rimini 1994, p. 27.
80. G. Cambin, Le rotelle milanesi, Giornico 1478, Società Svizzera di Araldica, 1987, pp.122-123, 156-157, 380; Stemmario Trivulziano , Orsini De Marzo, Milano 2001, pp. 34-40, 63; C. Santoro, Gli Sforza, dall’Oglio editore 1968, pp. 403-404.
81. Vedi: www.stemmieimprese.it, in capitolo le bandiere milanesi; oppure M. Predonzani, cit. pp. 146-148.
82. L. Nicoletti, Di Pergola e dei suoi dintorni, Pergola 1899, pp.483-484.
83. Dizionario biografico degli italiani, Cristoforo da Lavello; M. Predonzani, cit. p.180.
84. G. Cavalcanti, cit. p. 229.
85. G. Livet R. Mousnier, Storia d’Europa, il Rinascimento, vol.3°, pp.129-130.
86. P. Larivaille, La vita quotidiana in Italia al tempo del Machiavelli, Bur 1995, pp. 48-49; P. Antonietti, La vita quotidiana in Italia ai tempi di Lorenzo il Magnifico, Fabbri Editori 1994, p. 146.
87. P. Antonietti, cit. pp. 287-288.
Ho letto il libro sulla battaglia di Anghiari, che mi è piaciuto parecchio.
Io invece sto leggendo tutto il possibile sul medioevo per due motivi. Da dieci anni partecipo allo scavo archeologico di un villaggio medievale.
D’altro canto raccolgo notizie sulla mia famiglia già nota nel IX/X secolo come signori e conti della Tezana di Germania (chissà dove si trova?)
ed il cui primo rappresentante a portare il cognome Scarselli (Pietro di Matteo di Accarisio “a scarsellis”, forse degli Accarisi ghibellini nemici dei Manfredi a Faenza) fu il 1° maggio 1356 ambasciatore a Carlo IV in Praga e da questi fatto cavaliere. Di che ordine? Ambasciatore di chi? Di Bologna? Nel Blasone bolognese è riportato lo stemma ed anche il cimiero ricevuto da Carlo IV: un leone d’oro rampante (non quello di Boemia, pare),che regge una spada d’argento con impugnatura d’oro.
Sto cercando di contattare via e-mail l’archivio di stato di Praga, ma mi risponde poche parole in ceco. Nella biblioteca dell’università di Bologna esiste l’albero genealogico della famiglia “Tezana o Scarselli” dal IX/X secolo al XVII. Poi più nulla. Sto cercando di riallacciare i fili. Suggerimenti? Vedo che lei ne sa parecchio. Complimenti e cordiali saluti da
Dr Fabrizio Scarselli
Egr. dott. Scarselli
Purtroppo nei miei studi non ho mai incontrato la famiglia Scarselli né la località di Tezana. Comunque per quello che posso sarò felice di aiutarla.
Ho visto che le notizie sul Pietro Scarselli ambasciatore nel 1356 presso l’imperatore Carlo IV le ha tratte dalla “Enciclopedia storico-nobiliare” dello Spreti che menziona lo stemmario Alidosi che lei avrà di certo consultato. Ha consultato anche il “Dizionario storico-blasonico” del Crollalanza? Per molti studiosi d’araldica il Crollalanza è reputato molto attendibile.
Ho letto che nel maggio 1356 anche il Petrarca si recò da Carlo IV come ambasciatore per Galeazzo Visconti, forse cercando nelle cronache del periodo, oppure nella biografia o negli scritti del poeta- scrittore aretino si può trovare qualcosa.
Sul forum di http://www.villaggiomedievale.com/ sito molto interessante che io spesso visito, ho trovato questo indirizzo http://mdzx.bib-bvb.de/codicon/start.html del Bayerischen Staatsbibliothek Munich (BSB) dove nella sezione relativa a manoscritti araldici: Heraldik ci sono molti stemmari non solo tedeschi ma anche italiani ecc.
Riguardo lo stemma del leone d’oro è chiaramente una concessione dell’Imperatore, all’epoca era molto comune da parte dei regnanti questo tipo di riconoscimento araldico assieme ai vari titoli (vedi le aquile dell’Impero concesse a numerose famiglie lombarde o il Capo d’Angiò adottato nel centro e sud Italia ecc.) a persone importanti. Poteva essere concesso lo stemma intero o una parte di esso. A Muzio Sforza per esempio nel 1401 fu donato il leone rampante (che divenne stemma degli Attendolo) dall’imperatore Roberto di Baviera, che nei colori differiva da quello del sovrano stesso. Analoga cosa sarà successa a Piero Scarselli, a cui l’imperatore dell’epoca donò il leone che faceva parte dello stemma di Boemia ma con i colori diversi.
Mi fa piacere che ha apprezzato il mio libro e tanti auguri per il suo bellissimo lavoro di archeologo.
Massimo Predonzani
Da alcuni giorni ho acquistato il suo interessantissimo libro sulla battaglia di Anghiari, che continuo a leggere e consultare con grande piacere.
Approfitto di questo spazio per rivolgerle una domanda su un argomento che immagino sia di interesse comune.
Per quanto riguarda le vicende dei “Bracceschi” e dei capitani della casa dei Fortebracci conseguenti alla morte del capostipite Andrea “Braccio” sotto le mura dell’Aquila, ho trovato assai affascinante la figura del nipote ed insigne capitano Niccolo Fortebracci (o Niccolò “della Stella” dal nome di sua madre, sorella di Braccio). In particoalre trovo assai interessanti le spregiudicate operazioni di tale capitano negli anni 1433-1435, che lo portarono ad un passo dalla riconquista di quella vasta signoria nell’Italia centrale che fu già di suo zio Braccio, prima di incontrare la morte sul campo di battaglia – una morte che rimase leggendaria tra i capitani dell’epoca.
Mi chiedo se Niccolò Fortebraccio abbia ereditato dallo zio Braccio – insieme alle truppe che poi confluirono nelle residue schiere braccesche del Piccinino – stemmi, imprese e divise; oppure se ne ebbe di proprie.
Grazie in anticipo!
Egr. signor Bassotti
Dalle cronache e dagli studi sulle compagnie di ventura risulta che furono Niccolò Piccinino e Oddo Fortebracci, figlio di Braccio, ad ereditare le truppe braccesche dopo la battaglia dell’Aquila.
Comunque nelle mie ricerche ho trovato che Niccolò della Stella portava anche lui come lo zio l’insegna del leopardo che però non appariva seduto come quello di Braccio ma rampante. Questa impresa deriva dal cimiero dello stemma dei Fortebracci.
La bandiera dello Stella viene menzionata da Giuseppe Civitale nelle Historie di Lucca, vol.II, in un’edizione stampata a Roma nel 1988 e precisamente a pag. 309, volume che ho trovato alla Bibl. Statale di Cremona.
Questa insegna viene ricordata, assieme ad altre di altri condottieri, durante la battaglia del Serchio del dicembre del 1430. In quello scontro Niccolò combatteva al soldo dei fiorentini che assediavano Lucca e dovette soccombere proprio contro i bracceschi del Piccinino intervenuti in aiuto della città.
Il testo del Civitale lo menziona così: “..diede la seconda ad un capitano detto Niccolò Bianco con altri mille cavalli, la cui insegna era di un leopardo solo rampante;”.
Il cronista lucchese lo chiama Niccolò Bianco ma è palese che si tratta dello Stella confrontando questa cronaca con le altre come i Commentari di Neri Capponi o le Historie dell’Ammirato..
Comunque il Civitale, che visse nel 1500, trae la sua cronaca da documenti originali e riguardo la battaglia del Serchio riscrive quasi tale e quale il fatto scritto da un certo Alessandro Boccella (cronista del XV secolo) nelle sue Istorie Lucchesi, di cui ho potuto consultare le pagine originali conservate alla Biblioteca Statale di Lucca.
Questo è l’unico emblema che ho trovato su Niccolò Fortebracci, ma è interessante notare che anche lui come lo zio preferisce usare sulle bandiere l’impresa di famiglia al posto dello stemma del montone.
Cordiali saluti
M. Predonzani
Grazie mille!
Quando facevo riferimento alle vicende successive all’assedio dell’Aquila sono stato effettivamente un po’ generico. Mi riferivo ad una situazione posteriore anche alla morte di Oddo Fortebracci, in particolare alle vicende dei Bracceschi nel corso dei primi anni ’30 del secolo. E’ interessante notare come dopo la la riorganizzazione delle schiere braccesche ad opera di Niccolò Piccinino e Oddo Fortebracci e la riunione di alcuni dei suoi capitani nella condotta fiorentina, sia stato proprio il Piccinino a passare al Visconti dopo la morte di Oddo, a differenza del Gattamelata e Niccolò della Stella che rimasero più a lungo sotto le insegne dei fiorentini. L’idea che mi sono fatto – ahimè – sempre da fonti secondarie ed opere esclusivamente “moderne” – sembra che l’eredità di Braccio rimanesse come frammentata tra diverse figure: i Forterbacci nelle rivendicazioni territoriali in seno allo stato della Chiesa, i Baglioni nel dominio piò o meno occulto su Perugia, il Piccinino ed i suoi figli alla guida della parte più cospiqua della compagnia che fu di Braccio. Tuttavia vincoli sottesi di tacita alleanza pur quando i singoli personaggi militavano in campi contraposti, insieme a reciproco timore e diffidenza (come i dubbi sulle responsabilità di Niccolò Piccinino sulla sconfitta di Braccio e sulla morte di suo figlio Oddo) sembravano legare le varie componenti dell’eredità braccesca.
Tornando agli aspetti più “militari” della questione, sarebbe interessante poter ricostruire stemmi, divise e imprese dei diversi personaggi e capitani delle fazioni braccesche.
Grazie ancora e cordiali saluti.
Luciano Bassotti.
Naturalmente il mio omonimo se riesce a trovare qualche veritiera ricostruzione araldica lo ringrazio se mi porterà a conoscenza. Io ho una ricostruzione diversa, fin dal 1200, probabilmente farlocca. Dato che sono di Prato sembra che il cognome Scarselli provenga da “scarsella”, la borsa di cuoio utilizzata per contenere monetee sia collocabile verso Pistoia.
Comunque…
saluti
Per ciò che riguarda le insegne, da profano vorrei far notare la differenza tra lo stemma rettangolare, di solito araldico di famiglia o di stato, portato su bandiera rettangolare, ed i pennoni, molto più grandi e triangolari (visibili sui vari cassoni fiorentini,Paolo Uccello, Broglio,musei svizzeri etc.) e che portano invece le “imprese” personali del singolo signore/condottiero. Un esempio di questo sono le tante imprese viscontee usate da Francesco e familiari vari su pennoni “alla sforzesca” ma anche le “imprese” di Sigismondo Malatesta in Hesperidos dove sui pennoni dei suoi cavalieri (e scudi dei fanti) non c’è lo stemna araldico di famiglia ma le sue imprese personali ( S, elefante, rosa …) In Svizzera,dove vivo,tra il bottino fatto a Grandson, Morat e Nancy a danno di Carlo il temerario e ancora preservato, vi sono entrambe le tipologie di vessilli con prevalenza dei pennoni (bellissimi) pieni di santi ma sempre con l’acciarino, le fiamme, ed il motto “je l’ay emprins” tutti di questo signore (e non della casata)